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La Fine della sovranità – Alain de Benoist (estratto)

Creato il 31 dicembre 2014 da Maxscorda @MaxScorda

31 dicembre 2014 Lascia un commento

La fine del mondo c’è stata, eccome! Non è avvenuta in un giorno preciso, ma si e spalmata su più decenni. Quello che è scomparso era un mondo, in cui la maggior parte dei bambini sapeva leggere e scrivere, si ammiravano gli eroi invece delle vittime, gli apparati politici non si erano ancora trasformati in macchine per stritolare le anime e  si avevano a disposizione più modelli che diritti. Era un mondo, nel quale si poteva capire cosa intendeva dire Pascal, quando sosteneva che il divertimento ci distrae dall’essere veramente uomini. Era un mondo, nel quale le frontiere garantivano, a coloro che vivevano al suo interno, un modo di essere e di vivere che era di loro specifica pertinenza. Era un mondo, che aveva anche i suoi difetti e che talvolta è stato addirittura orribile, ma in cui la vita quotidiana della maggior parte delle persone era quanto meno garantita da dispositivi di senso, in grado di dare dei punti di riferimento. Attraverso i ricordi, quel mondo rimane familiare a molti. Taluni lo rimpiangono. Ma non tornerà.
Il nuovo mondo è liquido. Lo spazio e il tempo vi sono aboliti. Liberata dalle sue tradizionali mediazioni, la società è diventata sempre più fluida e segmentata, il che ne facilita la mercantilizzazione. Vi si vive alla maniera dello zapping. Con la scomparsa di fatto dei grandi progetti collettivi, in altre epoche portatori di visioni del mondo differenti, la religione dell’io – un io fondato sul desiderio narcisistico di libertà incondizionata; un io produttore di sè, a partire dal niente – è sfociata in una ”detradizionalizzazione” generalizzata, che va di pari passo con la liquidazione dei punti di rifermento e dei punti fissi, rendendo l’individuo più malleabile e condizionabile, più precario e più nomade. Da un mezzo secolo, la “osmosi finanziaria della destra finanziaria e della sinistra multi culturale”, come ha scritto Mathieu Bock-Cotè, si è sforzata, con il pretesto della "modernizzazione" emancipatrice, di fare confluire liberalismo economico e liberalismo societario, sistema di mercato e cultura marginale, grazie soprattutto alla strumentalizzazione mercantile dell’ideologia del desiderio, capitalizzando cosi sulla decomposizione delle forme sociali tradizionali. L’obiettivo generale è eliminare le comunità di senso, che non funzionano secondo la logica del mercato. Parallelamente, sono all’opera delle vere e proprie trasformazioni antropologiche, che toccano il rapporto con se stessi e con l’altro, il rapporto con il corpo, il rapporto con la tecniche. Domani arriveranno alla fusione programmatica fra l’elettronico e il vivente. Quando il desiderio di profitto si impone come unica motivazione, a detrimento di tutte le altre, il suo effetto performativo è quello di generalizzare lo spirito mercantile, che decompone la popolazione in semplici clientele. In questo contesto, il “politicamente corretto” è non una semplice moda un po’ ridicola, ma un mezzo forte per trasformare il pensiero, restringere ulteriormente uno spazio comune, generatore di obbligazioni reciproche, e rendere impossibile la riabilitazione di un universo di senso oggi scomparso. Stiamo infine assistendo all’istituirsi della governance, una sorta di cesarismo finanziario che consiste nel governare i popoli tenendoli in disparte. Lo Stato terapeutico e gestionale, dispensatore di ingegneria sociale e “grande sorvegliante”, si impegna, dal canto suo, a sopprimere la barriera esistente tra l’ordine e il caos.

Esso basa il proprio potere sulla costituzione assolutamente volontaria di una situazione subcaotica, sullo sfondo di una fuga in avanti e di un’illimitatezza generalizzate, creando in tal modo una condizione di guerra civile fredda. Il concetto stesso di classe sociale viene congedato da una sociologia vittimistica, che al suo posto colloca la denuncia della "esclusione" e la "lotta contro le discriminazioni", o da una "scienza" economica, che guarda al concetto di popolo come a una categoria residuale, nel momento stesso in cui la lotta di classe e più che mai in auge. Sotto l’effetto delle politiche di “austerità”, l’Europa sta scivolando nella recessione, quando non nella depressione. La disoccupazione di massa continua a estendersi, lo smantellamento dei servizi pubblici comporta la riduzione dei beni sociali e il potere d’acquisto crolla. Un quarto della popolazione europea (120 milioni di persone) e sotto la minaccia della povertà. In passato, si sono fatte rivoluzioni per molto meno. Oggi non accade niente di simile; certo, le delocalizzazioni, i licenziamenti e i piani sociali provocano delle proteste, ma non assistiamo ad alcun sciopero di solidarietà e meno che mai a scioperi generali: la lotta per il mantenimento del posto di lavoro non ha prospettive al di là di se stessa. Perché la crisi viene subita cosi passivamente? Perché i popoli sono sfiniti, sbalorditi, sgomenti? Perché hanno interiorizzato l’idea che non esistano alternative? I popoli vivono sotto l’orizzonte della fatalità. Attendono che ciò accada, ma non accadrà perché il capitalismo si scontra oggettivamente con limiti storici assoluti. Viviamo una crisi di un ampiezza assolutamente inedita, che tocca il sistema capitalista a un livello di accumulazione e di produttività mai raggiunto finora. Le crisi del XIX secolo avevano potuto essere superate perché la forma-capitale non si era ancora impadronita di tutta la riproduzione sociale, e quella del 1929 e stata superata grazie al fordismo, alla regolazione keynesiana e alla guerra. La crisi attuale, che interviene sullo sfondo della terza rivoluzione industriale, è una crisi strutturale, contrassegnata dalla completa emancipazione della finanza di mercato rispetto all’economia reale e dall’indebitamento generalizzato. Uno dei suoi effetti diretti e consistito nell’affidare il potere politico ai rappresentanti di Goldman Sachs e di Lehman Brothers, ma nessuno troverà una soluzione alla questione, perché non esiste un meccanismo che consenta di avere ragione della crisi. Le bolle finanziarie, il credito di Stato e la macchina che stampa banconote, vale a dire la creazione di capitale-denaro fittizio, non possono più risolvere il problema della desostanzializzazione generalizzata del Capitale; sia che ci si diriga verso un’inflazione incontrollabile in assenza di qualsiasi reale valorizzazione – trattando l’attuale crisi di solvibilità come una crisi di liquidità – sia che si vada verso un generalizzato default nei pagamenti, tutto ciò non può che finire con un terremoto.

Ringraziamo Weltanschauung


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