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La finestra sul porcile: Index Zero

Creato il 06 luglio 2015 da Cicciorusso

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Index Zero non è solo il miglior film di genere indipendente girato negli ultimi vent’anni da un regista italiano (scusate se è poco), è anche un esperimento ormai rarissimo in un Paese il cui cinema – salvo le iniziative isolate di coraggiosi predicatori nel deserto come Matteo Garrone – appare da un pezzo condannato a una perpetua autoreferenzialità ombelicale: confezionare un prodotto diretto a una platea internazionale e fruibile a tutti. Non c’è l’aria da “vorrei ma non posso” che aveva reso inesportabili tentativi volenterosi ma fuori fuoco come Nirvana, né la fastidiosa aria da circoletto dei nerdacci che caratterizza minchiatine magari pure divertenti come Tulpa, che provano a giustificare con la scusa del citazionismo d’antan una padronanza dello strumento cinematografico ancora approssimativa. Lorenzo Sportiello, barese trapiantato a Roma, classe 1978, sfodera invece una coscienza dei propri mezzi impressionante in un cineasta alla sua opera prima e tale da supplire, secondo la migliore tradizione italiana dell’arte di arrangiarsi, alla scarsità di mezzi (appena 500 mila euro di budget effettivo), grazie non solo alla chiarezza di intenti e alla capacità di creare tensione (la pressoché insostenibile scena del tunnel) ma anche alle interpretazioni di un cast di ottimo livello guidato dall’attore shakespeariano Simon Merrells, già visto in Spartacus nel ruolo di Marco Licinio Crasso, e della rumena Ana Ularu, piuttosto nota in patria.

Siamo nel 2035. L’eccessivo sfruttamento delle risorse del pianeta ha causato una carestia globale che costringe gli abitanti degli Stati Uniti d’Europa a comprimere al massimo le proprie esigenze vitali in nome della sopravvivenza del sistema. A ogni cittadino viene assegnato un indice di sostenibilità calcolato sul monitoraggio di ogni singolo parametro biologico e sulla produttività economica che deve necessariamente segnare zero: un imperativo che ha costretto le donne a una sterilizzazione di massa perché non perdano nove mesi di attività. Solo pochi privilegiati riescono a concedersi il lusso di un bambino, la cui gestazione avviene in un utero artificiale. Al di fuori, oltre un muro che ricorda quello costruito alla frontiera tra Messico e Stati Uniti, scalpitano reietti che sopravvivono bevendo l’acqua delle pozzanghere e cibandosi di piccoli animali divenuti ormai così rari che un paio di carcasse sono sufficienti a pagare al “coyote” di turno l’accesso agli stretti budelli sotterranei che consentono l’emigrazione clandestina oltre la barriera. E così che i due protagonisti, dopo un’estenuante traversata del deserto, riescono a entrare nel territorio USE, dove vengono sbattuti in una sorta di Cie-lager in attesa che venga misurato il loro indice di sostenibilità e, con esso, la loro possibilità di essere ammessi nello Stato di polizia che li attende dall’altra parte del confine. Lui viene considerato idoneo, la sua compagna no. È incinta e, in quanto tale, non sostenibile e destinata al respingimento, in un futuro dove il suo grido disperato “vogliamo solo vivere, siamo esseri umani” non trova più orecchie che lo ascoltino. Ma l’uomo non si rassegnerà ad abbandonarla.

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Il regista, nell’incontro con il pubblico avvenuto al recente Fantafestival, dove ho avuto la chance di vedere Index Zero, ha parlato di “fantascienza umanistica”. Io mi permetto di definirla più recisamente “fantascienza politica”, non nel senso deteriore e ideologico del termine ma nell’accezione più nobile e carpenteriana. La pellicola è infatti molto più figlia di Essi vivono che di The Road o Mad Max. Non c’è spazio per metafore o allusioni, il messaggio è estremamente diretto. Laddove, risalendo le riprese al 2013, è solo una beffarda coincidenza se alcune sequenze sembrano richiamare la recente emergenza profughi, è invece quantomai violenta ed esplicita la critica a una struttura economica che ha ridotto il benessere del singolo a una variabile da sacrificare in nome della preservazione del sistema. I cartelli ‘No Index’ delle manifestazioni che appaiono sugli schermi televisivi (Sportiello rispetta alla perfezione la prima regola di ogni buon film distopico: saper tratteggiare un universo da incubo con poche pennellate dalla sintesi miracolosa) richiamano i ‘No Austerity’ sollevati gli scorsi anni a piazza Syntagma, a Madrid o a Lisbona. E vengono brividi autentici quando il protagonista si sente rispondere I’m not free, I’m sustainable, freedom is no longer sustainable! dal medico che lo sta esaminando e al quale aveva chiesto “come fosse sentirsi liberi”. L’unica cosa che non mi è piaciuta è il finale inutilmente esplicativo. C’è una sequenza stupenda verso la conclusione che rimanda a una analoga dell’inizio che, posta come chiusura circolare, avrebbe reso Index Zero più indeterminato e inquietante.

Adesso, giustamente, vi starete domandando dove potrete vedere questo film così bello e importante e come mai non lo avete visto programmato al cinema, anche perché vi sara bastata la lettura di questo articolo per intuire di avere di fronte un lavoro dalle ottime potenzialità commerciali. Purtroppo, se non avete avuto la fortuna di beccarlo a un festival, vi attaccate al tram perché il produttore, Giuseppe Gargiulo della Cvc – come ha raccontato lo stesso regista – ha mollato Sportiello a fine riprese, lasciandolo in brache di tela e costringendolo ad occuparsi della postproduzione da solo insieme al montatore Giuseppe Trepiccione (a maggior ragione, tanto di cappello per il risultato finale). I diritti però li detiene sempre Gargiulo e, finché non si deciderà a sbloccarlo, non vedrete mai Index Zero in una sala. Io sarei dell’idea di andarlo a cercare a casa con le mazze da baseball. Nel frattempo, che dirvi, magari da qualche parte si trova il torrent. (Ciccio Russo)



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