Hi, I’m Øystein. This is Yngve and Pål Ole. We heard your music. We got hold of a copy of your tape in Oslo. We want to release it at our label. It’s a small one but… Nonostante il fatto che a un certo punto, nel paesino islandese isolatissimo dove vive Hera, si presentino Euronymous e Dead, non sarebbe corretto affermare che Málmhaus (questo il titolo originale islandese) sia un film sull’heavy metal.
Hera è una bambina la cui vita serena viene sconvolta dall’aver assistito alla morte accidentale di suo fratello, un ragazzo non più che adolescente, schiacciato dal trattore che stava conducendo durante una tranquilla e monotona giornata di lavoro. La prima trasformazione della bimba avviene nel suo sguardo quando, in chiesa, mentre il prete recita l’elogio funebre rituale, alza gli occhi all’immagine di Cristo e fa le corna. La ragazza, per tentare di elaborare il lutto, adotta una soluzione che si rivelerà per molto tempo controproducente, quella di vestire i panni del fratello che era, appunto, un metalhead. Inizia ad andare in giro col chiodo, le magliette degli Iron Maiden, ad ascoltare i vinili e le cassettine, ad imbracciare la chitarra elettrica, ma pure tenta di raccogliere le sue cose in uno zaino, decidere ogni giorno di andarsene via e non farlo mai. Già isolata con la sua famiglia in questa fattoria ai piedi del nulla, sceglie l’isolamento ulteriore, dai contatti umani e da sé stessa. Arrivato a questo punto del film già mi giravano a raffica: ecco, mi sono detto, il classico luogo comune del metallaro sociopatico che poga in mezzo ai vecchietti durante le serate danzanti di paese e che manifesta il suo disturbo secondo lo stereotipo più classico. La scena di lei, ormai divenuta adulta, che suona la chitarra elettrica sulla tomba del fratello mi aveva quasi convinto a spegnere tutto. Poi ho pensato che forse ne stavo dando una lettura sbagliata, troppo filtrata da ciò che sono, e ho capito che questa non è una pellicola dedicata a gente come noi, perché se queste fossero le reali intenzioni del regista allora potremmo definirlo tranquillamente un imbecille.
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Il film fu presentato in anteprima nel 2013 al Toronto Film Festival e l’anno scorso a quello di Montreal. È diretto da un regista islandese, Ragnar Bragason, e anche gli attori sono autoctoni. Questo particolare ha fatto sì che la storia, a prescindere dalle valutazioni che può farne uno spettatore che ascolta heavy metal, come ho fatto io, risultasse un credibile specchio della vita islandese rurale che, nei volti austeri delle persone e nel tratteggio del loro stile di vita inconcepibile, non facesse torto a ciò che ancor più inconcepibilmente definisce quel paese, ovvero gli immensi e vuoti scenari naturalistici. Quindi, tornando all’affermazione d’apertura, si può dire che questo altro non è che un film sull’Islanda e i suoi abitanti ma anche, più in generale, sul lutto e la solitudine. (Charles)
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