A distanza di tre anni dalla sua non-uscita nelle sale, possiamo affrontare il discorso relativo a Morituris con la mente sgombra da possibili reazioni di disgusto per la vicenda della censura e tutto quello che ha ostacolato il film di Raffaele Picchio. In realtà ne potevamo parlare anche tre anni fa, però tra porte del router da sbloccare, chiavette usb dimenticate, i funerali di Mandela e la triste scoperta che Høest fa le zozzerie sul palco con altri omaccioni pelosi, la cosa è completamente passata in secondo piano. Questo mi permette di saltare quasi a piè pari la trama, perché, se lo volevate vedere, sono certo che abbiate già trovato il modo di farlo, in caso contrario il problema è tutto vostro. In estrema sintesi, la storia è questa: tre coatti della Roma bbbene, spalleggiati e guidati dall’alto dal loro mentore (un filosofo dell’apocalisse che chiude le sue sofisticate elucubrazioni con “Vai tranquo”), rimorchiano due ragazze dell’est Europa, promettendo di portarle a un rave segretissimo sulla Cassia. Arrivati nella radura, i ragazzi scopriranno che quello non era il boschetto della loro fantasia e le ragazze scopriranno che, nonostante tutto, è abitato da un fottio di animaletti un po’matti. Seguono violenze, stupri, gladiatori zombie, teste frantumate, crocifissioni. Stop. Morituris è tutto qua e non è detto che sia un male, anzi. Partiamo dagli aspetti positivi del film:
- Picchio (Nomen omen) ha coraggio da vendere. Sarà pure un’autoproduzione libera di osare, ma la scena dello stupro è veramente pesante ed è girata da uno che, evidentemente, non va mai a letto la sera senza aver rivisto I Spit on Your Grave.
- La messa in scena, al netto dei limiti imposti dal budget, è curata con una professionalità quasi sconosciuta in Italia. La scelta di girare quasi tutto di notte non è il classico escamotage per mascherare i limiti della produzione, quello che si deve vedere, si vede, quello che non si deve vedere, non si vede. Ho perso più diottrie guardando Cabin in the Woods, per dire.
- Gli attori difficilmente riceveranno candidature agli Oscar da qui ai prossimi settanta anni, ma fanno la loro figura. Soprattutto le due ragazze, ma ancor di più il gladiatore-boia con la panza.
Detto questo, passiamo alle note meno liete, difetti cronici che non riguardano tanto Morituris (o meglio, solo Morituris), ma che rappresentano patologie congenite che affliggono da tempo il cinema italiano. L’aspetto più grave è la definitiva morte degli sceneggiatori in Italia. Morte che in alcuni casi non è metaforica – vedi Age e Scarpelli – ma in linea di massima indica l’assoluta mancanza di ricambio generazionale in un settore, è bene sottolinearlo, dove non abbiamo mai brillato particolarmente. Se nel western potevamo letteralmente dettare legge perché siamo stati i primi a superare il facile manicheismo americano, dando vita a veri e proprio western-noir, con i confini tra buoni e cattivi sempre meno netti e definiti, in ambito thriller ed horror ce la siamo quasi sempre cavata grazie ad altre armi. Senza stare a fare il bignamino delle sceneggiature più astruse mai scritte in questo paese, quello che attanaglia le nostre produzioni è la totale mancanza o di credibilità nel disegno dei personaggi, o di ritmo nella narrazione, oppure di entrambe le cose. Giusto per portare un paio di esempi recenti, Paura dei Manetti bros e Ubaldo Terzani Horror Show di Albanesi sono insulti all’intelligenza dello spettatore perché concepiti con l’idea che il pubblico sia totalmente rincoglionito e non si curi minimamente né delle incongruenze, né dell’assurdità dei dialoghi falsi appiccicati in bocca ai protagonisti, perché tanto c’è il sangue, ci sono le tette e ci sono le citazioni.
Le citazioni. Il male di tutti i mali. La convinzione che elencare a memoria film e registi degli anni settanta sia una sorta di obbligo morale per espiare trent’anni di cinepanettoni e commedie dove famiglie frammentate e isteriche sciolgono le lacrime in un buon bicchiere di vino, accompagnato dai tarallucci. È una delle cose più irritanti che il cinema di questo paese abbia prodotto: il rimorso e la malinconia, roba da psicologi, il più plateale caso di misunderstanding collettivo che l’arte contemporanea possa ricordare. Inevitabilmente il pensiero corre a Tarantino, che però, per quanto sfacciatamente paraculo nell’attingere a piene mani dal cinema italiano di genere, ha sempre rielaborato la materia a suo piacimento, lasciando il citazionismo ad un livello più elevato. Da noi, tutto questo si è ridotto all’assurda convinzione che sbattere sullo schermo le sequenze di un film degli anni settanta equivalga a rendergli omaggio. Altrimenti non si spiega il senso, nel caso di Morituris, di proiettare Il boia scarlatto – che è film talmente trash da depotenziare qualsiasi scena - durante la sequenza del topo. A proposito di Tarantino, qualche notte fa mi sono imbattuto nel documentario di Steve Della Casa sui registi italiani che maggiormente lo hanno influenzato. Il ritratto che emerge è quello di una generazione di geniali artigiani del cinema che, tutto sommato anche a ragione, chi più o chi meno, sta letteralmente rosicando della situazione che si è venuta a determinare. Non gli si può dar torto: Deodato è passato dai cannibal movies a Incantesimo, Lamberto Bava gira fiction per Canale 5 e Michele Soavi, che doveva essere l’erede di Dario Argento, si è trovato a fare gli sceneggiati sulla Rai. Detto che, sui meccanismi distruttivi dell’industria cinematografica italiana, può spiegare molto di più una puntata di Boris che qualsiasi approfondimento giornalistico, mi pare che la televisione abbia le sue colpe ma fino a un certo punto. Il cinema di genere, in questo paese, muore perché muoiono le fondamenta stesse della sua esistenza, ovvero la politica. L’intero carrozzone sostenuto ed alimentato dalla borghesia conservatrice da una parte e dal PCI dall’altra, oltre a produrre lavoro, serviva a generare consenso e si inseriva in un discorso di reale contrasto ideologico, talmente forte che bastava uscire dal seminato per essere immediatamente castigati, pur avendo decenni di militanza alle spalle. Emblematico è il caso di Petri, abbandonato al suo destino in nome del compromesso storico, dopo Todo Modo. In questo i film di genere sguazzavano allegramente, anche per il loro essere genuinamente popolari: dai poliziotteschi reazionari e vagamente fascistoidi, dove il criminale è tale per natura e Maurizio Merli è autorizzato a passargli sopra con la Giulietta, fino ai western del riscatto dei peones, passando per la critica ai vizi dell’alta società nei gialli. Chiuso quel capitolo, non resta che affrontare una realtà talmente amara da rendere la censura di Morituris un problema secondario.