Magazine Opinioni
“Il lavoro deve essere flessibile”. Questo sembra essere diventato il nuovo mantra che viene recitato insieme dalle nuove suorine progressiste di tutti gli schieramenti e da tutte le categorie produttive. Nell’epoca post moderna anche il lavoro si fa finalmente, per usare un’espressione cara a Bauman, “liquido”. Il posto fisso, la cui unica virtù era legata quasi esclusivamente alla sicurezza del reddito fisso, non esiste quasi più, e andrà sempre più scomparendo, checché ne dicano proprio quegli stregoni che vorrebbero lucrare sulla crescente precarizzazione. A ben vedere, infatti, il mercato del lavoro deve oggi essere flessibile, mobile, dinamico, per venire anzitutto incontro alle esigenze di chi vi si approvvigiona; per mettere in condizione i datori di lavoro di dare più lavoro, anche se poi quel “più lavoro” si traduce spesso esclusivamente con un lavoro instabile, dilatato su una massa di forza lavoro più amplia e spesso volutamente sottopagata: stagisti senza fine, malati di corsi, eterni precari, neolaureati, strumenti necessari per oleare la logica del profitto imprenditoriale del “massimizzare gli utili tagliando gli sprechi” (mi ha sempre fatto specie che esista un mercato del lavoro, degli uomini, così come ne può esistere uno delle vacche o degli ovini. Nel progredito capitalismo odierno, dove tutto è libero ma oggettivato a quantità, anche il lavoro diventa così una merce di scambio).
Eppure, questa riqualificazione professionale senza fine, questo continuo cambiare pelle, dicono i giuslavoristi di affermata fama, dovrebbe determinare anche un costante miglioramento delle conoscenze del lavoratore e così pure una crescente possibilità di trovare sempre nuovi impieghi, riciclandosi di volta in volta. In realtà, dacché il lavoratore è oggi solo una merce al pari delle altre, una risorsa alla mercé degli eventi economici, la flessibilità del mercato del lavoro serve più agli scrupoli e agl’interessi dei sistema che all’effettiva crescita di competenze e di abilità professionali del lavoratore stesso. La flessibilità, infatti, se la si guarda da vicino negli effetti che sta provocando su una società economica che si regge esclusivamente sulla velocità dei consumi, serve anzitutto i desiderata economici di una sempre più miope ed inetta classe imprenditoriale (adorata però dal lavoratore-strumento che soffre di vertigini: dal momento che mi dai da lavorare, fai di me ciò che vuoi. L’”uomo operoso”, “fatto di lavoro”, diventa un modello da seguire: chi mi dà da lavorare ha ragione a prescindere, ché mi sostenta non facendomi preoccupare di vivere!). Eppure, quella stessa elasticità lavorativa, se guardata da una prospettiva più umana, può forse anche avere qualche risvolto positivo. Thomas More, ad esempio, tracciò agli albori del ‘500 una strada diversa rispetto al precariato fisiologico, genuflesso ai dogmi mercantili, che viviamo nella democratica contemporaneità. Nella società ideale disegnata da More, gli abitanti di Utopia dovevano provare il maggior numero di mestieri possibili, sopra tutti l’agricoltura (per l’uomo premoderno l’agricoltura aveva un’importanza vitale. Come segnalato anche dai fisiocrati francesi, essa era l’autentica ricchezza per l’essere umano, energia indispensabile per potersi adoperare poi in qualsiasi altra attività volitiva. Oggi, invece, offuscati dal progresso incalzante, il settore primario vale solo il 2% del Pil italiano). Anche secondo Moore era necessario cambiare lavoro, almeno per un breve iniziale periodo di prova. La necessità di questa precarietà ante-litteram non era però esclusivamente legata all’asservimento umano nei confronti del sistema economico di produzione, bensì alla crescita e al benessere dell’uomo stesso: provo tanti lavori e poi posso capire la fatica del lavoro dei consimili, così magari la smetterò di pensare che il mio lavoro sia il peggiore e che gli altri non facciano niente. Ad Utopia la flessibilità del lavoro era parte integrante di un percorso di autoconsapevolezza civica, persino di maturazione esistenziale. Viceversa oggi è il mercato a selezionare le risorse umane, a spostarle come ingranaggi usa e getta, muovendo gli uomini senza sosta da una parte all’altra, nell’interesse di un crescente ed infinito profitto economico. Abbiamo così eretto il lavoro a valore fondamentale, ma lo abbiamo fatto sbadatamente, proprio a scapito degli stessi lavoratori (per More invece non era un valore così centrale nella vita degli uomini, tant’è vero che il fine ultimo era raggiungere l’obiettivo del maggior tempo libero). Oggi si mira quindi a lavorare sempre di più, quasi che questo surplus di lavoro “straordinario” conferisca all’uomo persino la patente di buon cittadino, la medaglia di “utilità” all’interno di una società irragionevole, che vuole lavorare senza poter però garantire quel lavoro. A dirla tutta, non è nemmeno così chiaro quale sia oggi lo scopo del lavoro, dato che non abbiamo bisogno della maggior parte degli oggetti che produciamo e gl’impiegati nell’agricoltura, quelli che danno da mangiare alla comunità, fosse anche quella allargata globale, sono una minima parte della popolazione attiva. Non sappiamo più a chi serva lavorare, ma almeno oggi sembra non servire al benessere dell’uomo (almeno non a quegli individui che, privati da quell'ennesimo riempitivo del vuoto, non saprebbero come passare il loro tempo).