(The Thicket)
Autore Joe R. Lansdale
Editore Einaudi
PAESE USA 2013
GENERE Western
PP 334
Prezzo 18,50 €
Grande ritorno di Lansdale, che con questo La foresta va a stampare il suo nome (a caratteri cubitali) nell’olimpo dei grandi romanzieri “dentro l’America”, gente come Steinbeck o, in anni più recenti, Kerouac. La storia è quella del giovane Jack, che nel giro di una settimana si vede morire i genitori e il nonno ( i primi di vaiolo, il secondo di morte violenta) e rapire la sorella minore Lula, portata via da una banda di disumani banditi. Per ritrovarla, si mette in viaggio con un manipolo di strambi personaggi: un pistolero di colore che di lavoro sotterra cadaveri e va in giro con un grosso maiale che gli obbedisce a mò di cane, un nano iroso e malinconico, tanto abile con la pistola quanto con la penna, uno sceriffo pieno di ustioni e cicatrici, il di lui sguattero, una prostituta che vuole cambiare vita. Per ritrovare l’amata Lula, Jack dovrà mettere da parte le proprie convinzioni (specialmente religiose) e avviarsi, con la sua armata Brancaleone, all’interno della famigerata “foresta”, calderone selvaggio e puzzolente che da riparo ai peggiori criminali del Texas…
Spesso si dice che Lansdale abbia una scrittura “cinematografica”, ovvero che quando scrive una scena la pensa come se fosse la sequenza di un film. Giustissimo, e con La foresta il suo rapporto con la settima arte si amplifica e diventa un qualcosa che va al di là dello stile. Questa volta, Lansdale guarda alla storia del cinema western anche per quanto riguarda le riflessioni: c’è molto Peckinpah nella creazione di un West sporco, fatto di feci, sangue e alcol, e molto Leone nella caratterizzazione di personaggi apparentemente amorali; ma da Leone e Peckinpah prende anche il tono malinconico e crepuscolare (non a caso il romanzo è ambientato intorno al 1900, con la fine del West agli sgoccioli): i cavalli lasciano pian piano il posto alle automobili e ai treni, gli alberi vengono abbattuti per fare posto alle case o per essere bruciati, il petrolio inizia a sgorgare e a inspessire le tasche di avidi proprietari terrieri. C’è l’Eastwood de Gli spietati, ad esempio nelle riflessioni filosofiche su quanto sia difficile uccidere un uomo (a livello tecnico come a livello psicologico) e nella laicità morale dello sguardo, c’è il Ford di Sentieri selvaggi, del quale La foresta, perlomeno a livello narrativo, è una sorta di remake con i banditi bianchi al posto degli indiani. Lansdale frulla quindi tutti i motivi del western (specialmente di quello revisionista e demistificatorio) e li contagia con elementi estremamente personali: la malinconia di fondo, l’amore per i reietti e gli sfigati, la capacità di capovolgere le carte, la struttura del romanzo di formazione “al contrario” (il protagonista disimpara ciò che sa per poter crescere). È un diario sul passaggio tra infanzia ed età adulta, un passaggio che ai primi del ’900 era decisamente più veloce e doloroso rispetto ad oggi.
L’ambientazione è ancora una volta il Texas, stato che Lansdale conosce molto bene e che ospita la quasi totalità dei suoi scritti. Poco importa se si tratti del Texas degli anni ’30 e della grande depressione (In fondo alla palude, Tramonto e Polvere, Cielo di sabbia, Acqua buia), di quello degli anni ’50 e dell’apparente boom economico (La notte del drive-in, La sottile linea scura), di quello dei giorni nostri (la saga di Hap e Leonard) o di quello, come in questo caso, del tramonto del West. Il più controverso e razzista degli stati americani, nei suoi aspetti più rurali e profondi, serve a Lansdale per raccontare la nascita e l’esistenza di un paese paradossale, ipocrita e bigotto, tremendamente immaturo e dalla storia ciclica. Certo, gli stralci temporali non sono mai casuali: Lansdale parla del passato, ma di un passato circoscritto in cui si proiettano i nodi irrisolti della nostra attualità.
La foresta è tutto questo. È un romanzo bellissimo, scritto benissimo, capace di invenzioni verbali a dir poco geniali, capace di descrivere poeticamente anche il fango e la merda. È un viaggio dantesco negli abissi della malvagità umana (non a caso il titolo originale significa la selva), è il testamento di un romantico che nega di esserlo, di un grande narratore che non teme di concludere il suo libro più bello e disperato con una scena che da lui, sinistrorso cinico e beffardo, non ci si aspetta: il giovane Jack osserva l’universo da un telescopio e, dopo averne passate di tutti i colori, si sofferma a contemplare gli astri, comprendendo e accettando la propria piccolezza e la piccolezza umana. Banale? Forse, ma è lo stesso spirito con cui, 500 anni fa, un altro scrittore concludeva la sua opera più famosa.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.