Il bosco custode della vita dell’uomo La storia delle nostre terre è un continuo fronteggiarsi tra il bosco e l’agricoltura. Nei periodi di crisi economica e demografica il bosco riprende ad espandersi riconquistando lentamente ma inesorabilmente le zone abbandonate dall’agricoltura, come fece, ad esempio, nel medioevo. Quando poi per l’uomo giunge il tempo della fame di terra riprendono allora i disboscamenti. L’ultimo, massiccio e pressoché definitivo, risale alla conversione dell’agricoltura di mezzadria alla monocoltura cerealicola speculativa del ‘700 e dell’ 800. Le grandi querce secolari, qualora non finirono in carbone, andarono ad alimentare la costruzione di traversine ferroviarie per la nuova rete di trasporto che si stava sviluppando lungo la penisola. Con la fine dell’ultima guerra e il massiccio esodo dalle campagne è cominciata però un’ultima inversione, ma solo in montagna e nell’alta collina pedemontana. Qui il bosco ha ripreso infatti ad espandersi e come una lenta, ma inesorabile marea sta riconquistando i coltivi, i pascoli e tutte le terre scomode abbandonate a se stesse. La crescita dei boschi montani è stata favorita negli ultimi decenni dalla sostituzione del legno e del carbone con i combustibili fossili. Così l’assenza degli uomini e delle loro consuete attività agricole e pastorali insieme con l’espandersi della copertura boschiva, ha facilitato l’incremento di molti selvatici, un tempo rari e quasi estinti, come il lupo e l’orso, il capriolo, il cervo, l’aquila.
Queste considerazioni sono nate da due piccoli eventi: girovagando per librerie mi è capitato tra le mani un libriccino di leggende giapponesi e una, in particolare, parlava dell’eroe mitico che sconfigge con una spada invincibile un terribile drago che esigeva numerose vittime tra le fanciulle di un villaggio. La cosa interessante e che tale drago immenso vniva descritto in modo tale da rendere evidente che era la personificazione del terrore della foresta selvaggia e primigenia che insidia la vita dell’uomo. Ma nella coda era racchiuso un aratro grazie al quale lo spazio selvaggio diventa fertile e utile per l’uomo. Leggenda molto nota in forme simili anche nel nostro Appennino. Nel contempo una collega mi invitava a partecipare ad un concorso didattico di una scuola rumena, intitolato “Il bosco piange” sul rapporto tra la foresta, l’uomo e il suo benessere. Queste considerazioni sono il risultato delle riflessioni intorno all’indispensabilità della natura per la vita dell’uomo.
Nelle tradizioni popolari di tutto il mondo ci sono leggende che riguardano il rapporto tra l’uomo e la foresta. Tale legame primigenio è così intimamente radicato nell’animo umano da condizionarne i comportamenti più profondi e suscitare emozioni contrastanti che oscillano tra il terrore più puro per l’oscuro mondo vegetale, foriero di morte e disfacimento, e l’attrazione serena per la possibilità di rigenerazione che la foresta dona a chi vi s’immerge con fiducia.
L’eterna contrapposizione tra uomo e foresta appare ben documentata in molti miti e leggende di ogni popolo. Essi raccontano la perpetua lotta tra il bosco e lo spazio agricolo. Il mondo del caos, incarnato dalla foresta, spesso simboleggiato da un drago mortifero che attenta alla vita degli uomini viene inevitabilmente sconfitto dall’eroe mitico in una cruentissima lotta. Il sangue o il corpo, smembrato del drago, sparso sul terreno, lo feconda dando inizio al mondo ordinato e vitale dell’agricoltura, sottratto definitivamente alla sovranità della morte e della distruzione precedente. I miti di fondazione ne sono pieni.
Il bosco e la foresta sono spazi pericolosi, colmi di rischi, oscuri e misteriosi e per questo anche seducenti per l’uomo. Non a caso si definisce “forestiero”, ossia colui che viene dalla foresta, l’uomo straniero e sconosciuto, alieno e temibile. Potenzialmente pericoloso per il singolo e per l’integrità della comunità. Perché chi attraversa la foresta e ne esce salvo è come se tornasse dal regno dei morti. È l’eroe che non può più essere imbrigliato nelle consuetudini che regolano la vita degli uomini comuni le cui norme rischiano un fatale sovvertimento.
Lo spazio agricolo, spazio umanizzato per eccellenza, diversamente dalla foresta è invece ordinato. Esso, con le sue geometrie accuratamente definite, configura l’ordine cosmico di cui rappresenta una sorta di ipostasi. Dalla custodia dell’ordinato spazio terrestre dipende l’esistenza del cosmo celeste e viceversa. È necessario allora custodirlo dal caos del mondo della foresta, regno del dissolvimento e della decomposizione, che lo assedia con ostinata ostinazione rendendolo incerto ed instabile. Il nulla si contrappone alla vita che può persistere solo se garantita dall’ordine ben regolato.
Non è casuale che le antiche città italiche, Roma compresa, venivano fondate tracciando un solco con l’aratro tutto attorno al perimetro delle future mura. Solo in corrispondenza delle porte, ubicate all’incrocio del cerchio con gli assi cosmici, si sollevava il vomere e qui, nei varchi creati dall’interruzione del solco, si poteva verificare l’incontrollata e pericolosa irruzione del caos all’interno dell’ordinato spazio urbano. Dentro e fuori andavano quindi attentamente tenuti separati.
L’aratro è il simbolo della colonizzazione dello spazio incolto e della sua riduzione a coltivi. In Valnerina ricca terra d’acque e foreste nel cuore dell’Appennino umbro una chiesa racconta nei suoi fregi l’identica ed antica storia della lotta con la foresta, la palude e l’incolto. Qui è l’ascia del boscaiolo incarnato dall’eremita san Felice di Narco, che uccide il drago che rende invivibili quei luoghi. Acqua, foresta, suolo, insieme al fuoco rappresentano la tetrade attorno alla quale si svolge tutta la vicenda umana. Dal loro equilibrio, sempre precario, ma sempre rinnovato, dipende il benessere o no dell’uomo. Anche dell’uomo moderno, benché ne sia inconsapevole.
Il cielo è la madre delle acque che fa scendere copiose sulla terra o le nega. Ma è il bosco il loro padre che le disciplina, le imbriglia e facendole infiltrare nel sottosuolo permette la perenne ricostituzione delle falde idriche sotterranee dalle quali l’acqua poi sgorga nelle sorgenti ordinata e feconda a favore della terra e degli uomini. Dimentichiamo facilmente che è il bosco che ci dona l’acqua e senza acqua ogni altra attività, come tutta l’economia di cui l’uomo trae tanto vanto, scomparirebbe e si vanificherebbe. Quando qualche anno addietro, il succedersi di alcune stagioni siccitose fece diminuire la disponibilità di acqua, potabile e per irrigazione, ci fu il tracollo dell’agricoltura nelle nostre valli. A nulla valse la tecnologia, se non ad aggravare le conseguenze di quella penuria. Non è la tecnologia che ci fa ricchi ma la natura che ci dona i suoi beni che essa sa amministrare con sapienti equilibri conseguenti alle infinite e spesso nascoste interazioni ecologiche. Quando poi, a causa dell’agricoltura di rapina, che ara profondamente le nostre colline dall’alto in basso, senza lasciare nessuna siepe e nessun albero a rallentare il defluire delle acque e nessun fosso per il loro scolo ordinato, le piogge hanno devastato e inondato distruggendo strade e aree industriali con la loro foga selvaggia erodendo portando a valle il prezioso suolo agricolo, ciò è solo l’altra faccia della insipiente gestione del territorio. È urgente recuperare la consapevolezza che anche se la vita di un numero crescente di persone si svolge interamente in ambienti urbani e artificiosi, infiniti e nascosti insospettabili legami lega quelle esistenze e il loro benessere ai ritmi senza tempo della natura e ai suoi ecosistemi di cui il bosco è forse il più importante custode.
Nelle vallate principali, invece, e sulla media e bassa collina la vegetazione arborea è scomparsa ancor di più, vittima dell’agricoltura seminativa meccanizzata e della speculazione edilizia. Vera piaga del nostro tempo, questa sta divorando sempre più velocemente lo spazio rurale attorno le città e lungo le strade sostituendo il suolo fertile con una piastra di cemento e asfalto. Ogni interstizio non edificato viene ritenuto terra di nessuno e improduttivo. La mentalità economicistica che imperversa devastando gli animi e le menti degli uomini di oggi, non riesce a vedere nessun valore nel creato che non sia calcolabile in moneta. Così non solo i boschi arretrano, ma anche ogni forma di paesaggio vegetale e rurale che non sia funzionale alla produzione economica. I nostri antenati seppero con il loro costante e faticoso lavoro unire in una sintesi irripetibile la necessità del sostentamento economico a quella del dare forma ad un paesaggio umanizzato improntato dal paradigma della bellezza. I paesaggi della Toscana,delle Marche e dell’Umbria sono stati riconosciuti in tutto il mondo come ammirabile e ineguagliabile unione tra naturale e artificiale, tra coltivazione, alberate e bosco, frutto di un continuo dialogo tra città e campagna, capacità di modellare un territorio in cui l’insediamento umano sia in perfetto e mutuo equilibrio con la diversità della natura.
Ormai quel paesaggio, purtroppo, è solo un vuoto simulacro, sfregiato e svuotato dalla rapina del bene territoriale mascherata di modernità. Gli effetti deleteri e gli enormi costi sociali ed economici, non solo in Italia Centrale, ma in tutta la penisola si stanno ampiamente manifestando ad ogni evento della natura. Si grida al disastro ambientale sia se piove che se non piove, a seguito dei sismi, delle nevicate anche le più banali, delle mareggiate e così via. La vulnerabilità è massima, ma poiché dio acceca chi vuol far perdere, ci si intigna a disboscare, a cementare i corsi dei fiumi, a diserbare e distruggere siepi e ogni presidio naturale. La città è ormai lei il regno del caos più assoluto. La foresta però aspetta perché la sua è una pazienza millenaria e saprà riconquistare gli spazi che oggi, apparentemente, le appaiono preclusi.
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