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La fortuna non esiste

Da Bibolotty
La fortuna non esiste
Le richieste di “saperne di più”, mi arrivano da un numero sempre maggiore di lettori. Io arrossisco un po’ e mi metto al lavoro.
Potrei sbrigarmela inviando o trascrivendo il materiale che mi arriva dal Tempio, ma in realtà sono anni che vorrei “dirla” a parole mie.
Certo sarebbe opportuno parlarne nella mia casa, raccolti in ginocchio davanti al Buddha la stanza in penombra illuminata da candele, profumata da incensi, e forse il momento verrà.
Questo “Moments” spirituale non vuole essere un trattato sulla mia scuola di pensiero ma un ragionare sulla mia esperienza e fornire indicazioni, spunti per riflessioni.
C’è stato un periodo della mia vita, lungo lo ammetto, in cui l’ignoranza – uno dei sei mondi inferiori - mi portava a credere che oggetti, persone o pensieri, percorsi stradali e date, una faccia particolare o un nome, mi portassero fortuna o sfortuna.
Pensarlo è normale, chiunque tende a dare la colpa di ciò che accade all’esterno di sé e delle proprie capacità, è più facile, comodo.
Ma così non è. La prima cosa che ci viene insegnato una volta in ginocchio e con il Juzu fra le mani è che tutto dipende da noi.
Se bevo molto alcol, il giorno dopo avrò sicuramente un gran mal di testa, così se rimango al sole durante le ore di punta, mi brucerò. La colpa però non è né del sole né dell’alcol ma dell’uso sbagliato che abbiamo deciso di farne. E il bello è che, in fondo, lo sappiamo bene che ciò che stiamo per fare, dire o pensare, avrà una conseguenza precisa.
Questa è una legge naturale e semplice, ed è l’unica che osservo: la legge di causa ed effetto.
Su questo si basa la mia pratica, sulla valutazione degli effetti che certe cause (pensieri, parole e azioni) avranno sulla mia vita.
“Se vuoi sapere il perché della tua vita presente guarda alle azioni passate, se vuoi conoscere il tuo futuro guarda alle azioni quelle presenti”. Così è scritto in uno dei tanti Gosho (lettere) che Buddha Nichiren Daishonin, allievo della scuola Tendai e “Buddha vivente” scriveva nel 1.200 d.C., in esilio nell’isola di Sado, ai suoi seguaci.
M piace l’idea di essere solo io l’artefice del mio destino. Che siano solo i miei pensieri, le mie parole e le mie azioni a far girare la ruota in un senso o nell’altro, io, il timone stesso della mia nave.
È stato sorprendente andare in cerca delle cause dei miei fallimenti e delle mie vittorie e scovarli, anche quando sembrava che non ci fossero e che fosse tutto merito o colpa del destino crudele e del fato poco magnanimo.
E così, delegando agli altri la mia miseria e tenendo per me solo i meriti, finiva che non vedevo più la direzione: avevo perso la bussola e continuavo a ricadere sempre negli stessi errori.
Proprio oggi pomeriggio, sorpresa da un piacevole stato di dormiveglia, ne ho trovato uno, invisibile, ma un errore forse determinante che, evitato, avrebbe “salvato” una precedente situazione. Sapere se poi la mia vita sarebbe stata migliore, questo non può essere chiaro neanche al Buddha ma sapere dove risiedeva la distrazione fatale questo sì, può essere utile.
So che leggendo queste righe chiunque può pensare che questo è ciò che fa ogni giorno, ma non è così. Non è così fino in fondo, se non si frequenta una “pratica” quotidiana dello spirito.
Prima di incontrare la “Via”, non riuscivo a essere lucida, ero preda della “passioni” ossia dei sei mondi inferiori che abitano, assieme ai quattro “superiori”, ogni essere umano.
Il problema non è l’intenzione che ognuno di noi ha di cambiare la propria sorte e di smetterla di auto compiacersi del proprio dolore, ma è il mezzo che usiamo per farlo. Il Buddhismo non è qualcosa che ci domina ma qualcosa che ci serve.
Serve a guardarsi e guardare, contemplare e capire qual è il mondo preponderante dentro di noi e far sì, con il tempo, che questi dieci mondi, fra loro comunicanti, siano perfettamente in asse, trovino l’equilibrio che nel Buddhismo è diverso per ognuno.
Il mondo d’inferno, il primo e il più vasto è quello della sofferenza permanente. Capire di essere preda di un istinto distruttivo, o collerico (il secondo dei mondi inferiori),o arrogante, è il primo passo per districare la trama che abbiamo davanti, il “renghe”. Per farlo sarà necessario applicarsi, sacrificare ore della propria giornata sia alla recitazione del Sutra Gonghio, che al canto del Daimoku, che letteralmente significa “titolo”.
Attenzione! Non pensiate di essere cascati in uno di quei gruppi così diffusi anche in Italia, anche se la “pasta” di cui è composta questa pratica sembra la stessa!
In questa “Scuola” non c’è nessuno che fa miracoli, ma solo la nostra forza che aumenta e si sviluppa con il passare degli anni e delle ore trascorse in meditazione. Capacità psichiche e fisiche che si attivano sviluppando una una sinergia fra interno e esterno.
Nessun Maestro né responsabile potrà consigliarci e guidarci ma solo i Preti (questa la tradizione più fedele del termine), e il Patriarca.
Nessuno ci imporrà scelte per cambiare la nostra sorte, nessuno ci chiederà di partecipare a maratone di preghiere collettive: la preghiera, la richiesta di un “dono” non fa parte di questa pratica.
Il mantra che recito non mi aiuterà a trovare lavoro, o l’amore, sicuramente però, rafforzerà la mia convinzione e la mia determinazione.
So che quando suono la campana e comincio a cantare, anche il peggiore dei mondi mi sembra pieno di tesori nascosti, e che da quando ho capito come “trasformare il veleno in medicina”, sono ogni giorno più serena e soddisfatta.
Recitare due volte al giorno il Sutra richiede una certa forza.
A volte, soprattutto all’inizio, finché la pratica non è diventata parte integrante della mia giornata, i demoni della pigrizia, della paura e dell’ignoranza mi aiutavano a trovare mille pretesti per evitarmi questa fatica. Mara in persona (uno dei demoni più forti), e le sue belle figlie, si davano un gran da fare a suggerirmi distrazioni dalla contemplazione e dalla verità (che nel Buddhismo sono quattro e Nobili).
Ma quando riuscivo a suonare quei tre tocchi subito la porta del Dharma si schiudeva.
Una volta compreso il meccanismo, è finalmente giunto il momento in cui molte delle mie azioni –ancora non tutte purtroppo-, mi hanno condotto al piacere e non più alla sofferenza.
Ma con calma.
Ogni scuola ha una pratica spirituale diversa, io, pur facendo parte di una Scuola Ortodossa, preferisco pensare che non ce ne sia una migliore dell’altra, purché si rimanga nell’ambito di Leggi e Templi storici e della spiritualità non mercificata (gadget, pagamento di piccole o grandi somme di affiliazione e richiesta costante di propagazione della propria setta).
Al di là dei piccoli e grandi bluff, rimane il rito, quello puro ed essenziale per “aprire” una sfera diversa di pensiero.
Molti mi dicono che la propria meditazione è la musica, la scrittura, un lavoro manuale qualunque ma se così fosse, la pratica spirituale avrebbe un altro nome.
La pratica è una ginnastica giornaliera, come il pilates il walking o le scale al pianoforte. Non chiederei mai a un pianista di “scaldarsi” cantando un mantra, o a un’atleta di farlo recitando il Sutra, non vedo perché il contrario sia invece praticabile.
La Fede non è così diversa dall’Amore.
L’amore non lo vediamo eppure non ne neghiamo l’esistenza, anche se lo teniamo lontano, ne andiamo in cerca di continuo. Della fede hanno parlato anche i poeti eppure, continuiamo a guardarla con diffidenza.
La pratica ci rafforza e ci aiuta a scegliere in quale stato vitale vivere. Scegliendo di uscire dalla disumanità dei sei mondi inferiori, saremo in grado di avere la mente aperta e di vedere chiaramente quale strada percorrere, di scegliere le azioni da compiere e di alleggerire il nostro Karma (argomento che merita un paio di capitoli a parte).

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