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La fuga della Fiat, il ricatto di Electrolux. L’Italia sempre meno competitiva

Creato il 30 gennaio 2014 da Andrea86
La fuga della Fiat, il ricatto di Electrolux. L’Italia sempre meno competitivaMentre i 5Stelle parlano di impeachment per Napolitano, prosegue silenziosa la fuga delle aziende (non solo quelle multinazionali) dall’Italia. Il caso di Fiat è solo la punta di un iceberg enorme che si sposta lentamente e che rischia di far affondare la nave Italia.
Gran Bretagna e Irlanda, un paradiso per le imprese. Il timore che, dopo la fusione con Chrysler, la Fiat avrebbe spostato la propria sede oltre oceano, si è rivelato infondato. Niente Detroit per Marchionne. Meglio trovare un buon compromesso per la sede fiscale tra Italia e Usa: la Gran Bretagna. Il Regno Unito è il paese europeo maggiormente interconnesso con l’economia americana. La scelta dei vertici di Fiat, però, è tutt’altro che esclusivamente simbolica. Infatti, in Gran Bretagna e in Irlanda vige un regime fiscale decisamente favorevole alle imprese, e non a caso gli stessi colossi americani hanno scelto di stanziarsi nella City o nella vicina irlandese Dublino per operare in Europa.
La riconoscenza non esiste. Così Fiat pagherà in Italia molte meno tasse. Con buona pace di chi ricorda a Marchionne che la Fiat si è salvata più volte grazie agli aiuti di Stato. Di acqua sotto i ponti ne è passata molta e soprattutto la parola “riconoscenza” non fa di certo rima con “economia”. Forse nemmeno di riconoscenza si può parlare perché la Fiat è stata salvata dallo Stato in primo luogo per mettere al sicuro i posti di lavoro di decine di migliaia di lavoratori e contenere così il disagio sociale e i relativi costi della cassa integrazione e dei sussidi di disoccupazione. Per questo Marchionne si sente le mani libere, senza comunque chiudere – per il momento – altri stabilimenti sul territorio italiano. In poche parole: “Vado dove mi conviene andare”.
Un paese poco competitivo. Altro caso emblematico è quello della Electrolux. L’azienda svedese ha alcuni stabilimenti in Veneto e in Friuli Venezia Giulia. Nei giorni scorsi ha sollevato il problema della competitività dei propri stabilimenti sul territorio italiano. Per rimanere in Italia, la società svedese ha annunciato di voler ridurre del 20% il costo del lavoro, altrimenti conviene andare a produrre nell’Europa dell’est. Il costo del lavoro è composto, oltre che dai soldi che finiscono nella busta paga degli operai e degli impiegati, anche dalle tasse che le imprese pagano su ogni salario elargito. Per ridurre il costo del lavoro, a tassazione invariata, l’unica strada è quella di ridurre il salario. Così i lavoratori dell’Electrolux che fino ad oggi hanno guadagnato 1.200 euro al mese, da domani potrebbero ritrovarsi con 700 euro in busta paga, con turni più duri e con meno festività. Qualcuno lo chiama ricatto, altri libero mercato. In entrambi i casi il problema vero sta a monte. Il nostro Paese non è competitivo e produrre in Italia ha costi elevati soprattutto per quei prodotti labour intensive a bassa tecnologia.
Il caso Whirlpool, mezza bufala. Nemmeno la vicenda Whirlpool – che ha deciso di chiudere uno stabilimento in Svezia per aprirlo a Varese – rappresenta un segnale di una qualche inversione di tendenza. La notizia, infatti, se in un primo momento ha girato rapidamente sui social network colpendo l’immaginario comune, negli ultimi giorni è stata decisamente ridimensionata. La stessa Whirlpool che sposta la produzione dei microonde dalla Svezia all’Italia, ha deciso di spostare dall’Italia in Polonia la produzione dei frigoriferi non da incasso, chiudendo la sede di Spini di Gardolo (TN) e mandando a casa quasi 500 dipendenti. Altro che investimenti in Italia, si tratta solo dell’ennesima razionalizzazione industriale che oramai avviene a livello transnazionale, dove i lavoratori sono solo pedine del gioco.
Meno burocrazia e meno tasse sul lavoro. Oggi, nell’Unione europea non sono più possibili gli aiuti di Stato alle imprese in difficoltà. Questi hanno rappresentato il sistema più semplice per consolidare il processo di industrializzazione del Paese, ma anche il sistema più errato, favorendo le imprese più inefficienti, aiutate anche da una raffica di svalutazioni competitive della moneta. Oggi questo non è più possibile. Ma rimane nelle mani del legislatore ancora un’arma: quella della competizione normativa. Le imprese vanno dove c’è meno burocrazia e dove il costo del lavoro è inferiore. Per questo il governo e il parlamento non resta che imitare i paesi più virtuosi o indicare un modello alternativo (che di certo non può più essere quello italiano degli ultimi decenni). In ogni caso i percorsi da seguire sono due: sburocratizzazione e riduzione del costo del lavoro. Per raggiungere quest’ultimo obiettivo senza incidere sugli stipendi e salari, è necessario ridurre il cuneo fiscale, cioè la differenza che c’è tra il costo che l’azienda sostiene per ogni singolo lavoratore e quanto quest’ultimo vede entrare nelle proprie tasche. Va tagliata la tassazione sul lavoro (incrementando quella sulle rendite finanziarie e non) e, se non fosse sufficiente, anche le spese della macchina pubblica. Senza queste riforme, una buona legge elettorale non serve a nulla e l’impeachment di Napolitano ancor meno.
Fonte: Diritto di critica

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