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Da una setta , dalla sua famiglia o meglio da quello che ne è rimasto che tra l'altro l'accetta malvolentieri, ma soprattutto Martha, Marcy, May o come diavolo si chiama è in fuga da se stessa...
Come al solito il titolista italiano si è fatto sfuggire il senso del titolo originale ( Martha Marcy May Marlene). Se in Palindromes di Solondz la protagonista Aviva aveva molte facce in un originale processo di destrutturazione del personaggio qui i vari nomi della ragazza sono solo la misura del suo grado di spersonalizzazione a cui è stata sottoposta.
La setta in cui ha vissuto per gli ultimi due anni sotto la patina della gioia nella convivenza stile comune hippy anni '70 nasconde in realtà rituali prevaricatori dal sapore medievale.
Si possono leggere in questa maniera la curiosa usanza di una specie di jus primae noctis che il capo della congrega si riserva con le nuove arrivate agghindate in bianco virgineo al fine di purificarle in una simulazione di rituale nuziale e renderle degne di essere parte del gruppo, oppure anche il fatto che le ragazze possono avvicinarsi alla tavola solo dopo che i maschi hanno finito di mangiare.
Per non parlare delle punizioni corporali comminate per un nonnulla.
Martha riesce a fuggire e va dalla sorella nella casa vicino al lago dove sta trascorrendo le vacanze assieme al marito.
E qui cominciano i problemi.
La ragazza appare segnata irrimediabilmente dal suo passato recente. E'instabile emotivamente, catatonica a tratti, visibilmente a disagio con le regole di convivenza comune, apparentemente senza freni inibitori. Fa il bagno nuda incurante di chi la possa guardare, la notte quando ha paura va a dormire assieme alla sorella anche quando lei è "impegnata" col marito( che chissà perchè può vedere Martha come il fumo agli occhi considerandola una pazza) , fa fatica ad adeguarsi alle nuove regole di vita dopo un periodo passato a infrangerle sistematicamente in una sorta di limbo caratterizzato da valori alternativi.
La sua psiche implode, il passato si confonde col presente , la paura che ritorni l'oscurantismo medievale da cui è fuggita prepotentemente si fa strada in lei.
Ma se il posto da cui è fuggita non era il suo, anche quello in cui è ora non lo sente come suo. E il futuro, al soluzione trovata per lei dall'amorevole sorella è un istituto per malattie mentali.
L'esordiente nel lungometraggio Sean Durkin è abile nel mescolare i vari piani temporali senza soluzione di continuità, il film non è tanto la storia della sua fuga ma quanto un flusso di coscienza in cui il regista fa scoprire gradualmente allo spettatore la brutalità mascherata da rituale della setta in cui è vissuta , senza tuttavia affannarsi in lunghi spiegoni finali che avrebbero appesantito una narrazione che non fa del ritmo la sua caratteristica dominante. Anzi. Pur in soli 100 minuti tutto appare dilatato, quasi a voler mitigare quel senso d'angoscia che pervade il film..
Viene lasciato tutto alla libera intepretazione di chi guarda in un finale che ha molto del cinema del primo Haneke.
Presentato a Cannes 2011, premiato per la regia all'ultimo Sundance Festival e rispettandone in pieno gli ormai consolidati canoni estetici, La fuga di Martha rappresenta uno scatto in avanti nel cinema indie americano che mai come ora si è avvicinato a quello del Vecchio Mondo.
Pur prendendo in esame un problema molto sentito negli States ( quello delle sette religiose che rapiscono le menti e i corpi di molti giovani) e pur descrivendo una provincia deteriore ben lontana dalla bellezza idealizzata dell'American Dream , appare innegabile una certa vicinanza stilistica con il cinema d'autore europeo.
Lo sguardo di Elizabeth Olsen ( terza rampolla dopo spregiata genie gemellare) è di quelli difficili da dimenticare.
Ti si pianta addosso e non ti abbandona neanche dopo i titoli di coda regalando un'inquietudine difficile da descrivere.
E quel finale aperto appare come uno sberleffo nella terra dell'industria cinematografica dal lieto fine pianificato per via degli incassi.
( VOTO : 8 / 10 )
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