La funzione di dominio nel mondo antico

Creato il 03 novembre 2010 da Bruno Corino @CorinoBruno


Riprendiamo l’analisi della funzione di dominio nel mondo antico, domandandoci in che modo il sistema di relazione riproduceva gli apparati repressivi, atti a garantire la sua riproduzione, oppure cosa spingeva i cittadini di una comunità organizzata a partecipare a tutti gli aspetti della vita sociale (politici, militari, religiosi)? Come ricorda Vernant (1965: 199), la maggior parte delle eccedenze non era immediatamente consumato dal proprietario di schiavi, essa ritornava alla collettività cittadina sotto forma di liturgie, alimentando il tesoro pubblico e servendo a pagare le spese comuni dello stato: feste civili e religiose, finanze militari, costruzioni di edifici pubblici. Quindi sotto forme di elargizioni generose, gran parte delle eccedenze tornava in circolazione a beneficio della comunità. Pertanto, tutti i cittadini in misura minore o maggiore erano interessati alla distribuzione di eccedenze, perciò era ovvio che ognuno di loro sentisse come suo dovere partecipare anche alla difesa attiva della città.
Se si poteva esercitare il dominio politico, anche senza il riconoscimento delle masse servili, lo stesso non si può dire di coloro che lo esercitavano, cioè le classi proprietarie, o di coloro che ne partecipavano, in quanto, sebbene non fossero necessariamente i diretti beneficiari, indirettamente ne beneficiavano: una adesione puramente esteriore al regime non era tollerabile. Tutti coloro che partecipavano alla vita della polis dovevano innanzitutto essere intimamente convinti del loro diritto a dominare. Il problema del consenso da parte dei “dominati” si pone solo quando, pur non vivendo in un sistema schiavistico di relazione, la funzione politica diventa ugualmente dominante, come è accaduto, ad esempio, nei moderni regimi fascisti: a quel punto l’operaio non può essere abbassato alla condizione di schiavo, cioè non è sufficiente il dominio sul corpo, ottenuto mediante la pura forza coercitiva, per costringerlo a produrre. Solo nei “lager” nazisti è stata possibile ripristinare una vera e propria schiavitù. Tranne questo caso, il problema del consenso al regime fascista interessa o coinvolge tanto le classi dominanti, insieme a coloro che partecipano al loro dominio, quanto quelle dominate: ecco perché, in questi regimi, la struttura simbolica e quella politica sono parti della funzione di dominio. Anche in queste società moderne, lo Stato viene innalzato a potenza suprema della vita dell’individuo, e assume connotati “religiosi”.
La struttura simbolica, che formava le coscienze e forgiava questa intima convinzione, era indispensabile a tal fine: senza di essa non ci sarebbe stato consenso al regime politico né da parte dei dominatori né dei coadiutori. Dal momento che il prelievo di surplus, prodotto dagli schiavi, era garantito soltanto dal dominio che lo Stato politico-militare esercitava sulla massa degli schiavi, il problema allora era costituito dal modo in cui lo Stato riusciva ad assicurarsi questo dominio. Per assolvere questo fine, lo Stato doveva riservarsi da un lato una quantità notevole di energia pulsionale, da usare in vista delle conquiste militari, attraverso le quali si riproducevano le forze di produzione, dall’altro doveva essere impiegata ai fini del controllo della massa servile. Da parte di ogni singolo cittadino, questa energia pulsionale doveva essere ceduta spontaneamente, altrimenti per lo Stato, esercitare una doppia azione coercitiva sulla massa di schiavi e sui cittadini, diveniva un compito insostenibile. Per ottenere la cessione spontanea di questa energia, lo Stato in cambio doveva offrire forti compensazioni atte a “motivare gli individui ad agire”. In altri termini, i componenti di uno Stato dovevano rinunciare spontaneamente alla soddisfazione immediata dei loro desideri, reprimendoli, in cambio di forti compensazioni offerte dalla collettività. Per cedere spontaneamente la loro energia pulsionale, i cittadini dovevano identificarsi con le istanze superiori dello Stato e della collettività: «L’Io diventa sempre meno esigente, più modesto, l’oggetto sempre più magnifico, più prezioso, fino ad impossessarsi da ultimo dell’intero amore che l’Io ha per sé, di modo che, quale conseguenza naturale, si ha l’autosacrificio di sé. L’oggetto ha per così dire divorato l’Io» (Freud, 1987: 110).
Sulla scorta di quanto Freud ha scritto nel saggio Psicologia delle masse e analisi dell’Io possiamo comprendere i meccanismi di questa identificazione. Infatti, gli individui si comportano nei confronti dello Stato come le masse nei confronti del capo carismatico. Affinché si abbia questa identificazione lo Stato doveva cambiare, nella coscienza degli individui, la sua reale natura: da strumento di dominio e di conquista doveva presentarsi come fine etico, verso il quale si indirizzano tutte le pulsioni del cittadino. Lo Stato rappresentava, per gli individui che ne facevano parte, ciò che l’oggetto d’amore rappresenta per l’innamorato. La Patria, lo Stato, la Comunità prendevano il posto dell’Ideale dell’Io. Accadeva l’identico processo psichico che Sigmund Freud descrive quando parla di alcune funzioni necessarie dell’organismo umano. Parlando ad esempio della “suzione”, Freud spiega come il processo di piacere, che si ricava dal succhiare il seno materno, ad un certo punto si rende indipendente dalla sua funzione vitale per avere nella vita del bambino un ruolo a sé. Così avveniva per la funzione politica dello Stato. La sua funzione strumentale di dominio, vitale ai fini dell’estorsione delle eccedenze, subiva uno spostamento radicale che ne rafforzava, però, il risultato: da strumentale, quella funzione diveniva etico-politica, in altre parole la sua funzione subiva un processo di sublimazione.
Lo Stato aveva quella determinata forma repressiva e coercitiva, perché era funzionale al dominio che esercitava sulla massa degli schiavi e per procurarsi altre forze di produzione, ma tale funzione, all’interno della coscienza del cittadino, veniva del tutto rimossa e sublimata: lo Stato e l’educazione che impartiva ai suoi cittadini non erano affatto concepiti in funzione del dominio sugli schiavi, e quindi come qualcosa di vitale alla sua sopravvivenza, bensì come fine supremo della vita. Essendo uguale l’oggetto introiettato da tutti i membri appartenenti allo Stato, tra di loro si creavano legami libidici che erano i più duraturi tra gli uomini. In ragione di questi legami nasceva negli individui il senso della collettività. L’assimilazione era possibile in quanto sin dall’infanzia si introiettavano le figure dell’autorità. Il bambino, inibito nella meta, investiva nella figura autoritaria del padre la sua carica pulsionale. I sentimenti che provava verso questa figura autoritaria erano di natura ambivalenti: da un lato egli odiava quella figura per i sacrifici e le rinunce che imponeva, dall’altro le serbava amore e stima. Questa ambivalenza sviluppava nel bambino un forte Super-Io, cioè un Io fortemente critico e severo, aggressivo nei propri confronti (perciò nell’antichità il suicidio era riconosciuto come pratica legittima). Il suo senso di colpa nasceva in relazione all’aggressività che provava nei confronti di chi gli aveva impedito il soddisfacimento delle sue energie pulsionali: «Il senso di colpa (la durezza del Super-Io, quindi, è la stessa cosa che la severità della coscienza, è la percezione che l’Io ha di essere sorvegliato in tal maniera, la stima della tensione che esiste tra i desideri dell’Io e le esigenze del Super-Io» (Freud, Disagio della civiltà/8).


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