La gaia mensa: "Il profumo della schiaccia briaca" di Maria Gisella Catuogno

Da Silviamaestrelli

“Il profumo della schiaccia briaca” di Maria Gisella Catuogno per “La gaia mensa”, il concorso letterario 2010 di Villa Petriolo, in questa domenica di letture golose…
Maria Gisella ci racconta di sé: “Sono nata all’Isola d’Elba, dove vivo, sono sposata e ho tre figli. Insegno Italiano e Storia in un Istituto Tecnico: amo molto il mio lavoro e lo considero quasi un privilegio, malgrado la scarsa considerazione sociale, la fatica e la straordinaria responsabilità.. Ho pubblicato nel 2003 la mia prima raccolta di liriche, Parole per amore (Ed. Libroitaliano) cui sono seguiti altri sei testi in prosa e poesia. Sono presente in molte antologie, ho ottenuto vari riconoscimenti. Collaboro a testate giornalistiche e blog letterari”.
Racconto “Il profumo della schiaccia briaca” di Maria Gisella Catuogno
Quando cominciavano le vacanze natalizie, Irene, otto anni, caschetto di capelli neri e grandi occhi verdi spalancati sul mondo, lasciava il suo appartamento di paese e si trasferiva con la mamma e il fratellino Francesco, per due settimane, dai nonni, a Capocastello, per trascorrere insieme a loro le feste più belle dell’anno: che emozione, per lei, riprendere il filo interrotto del colloquio col mare, che si apriva là sotto, a due passi da casa, respirarne il profumo di salmastro tutte le mattine, vedere la sua superficie trascolorare dal grigio allo zeffiro a seconda dell’umore del cielo! Anche la lontananza degli amici pesava meno: li avrebbe rivisti presto, appena dopo l’Epifania.
Ma per arrivare dai nonni era inevitabile passare davanti a un’austera costruzione, che somigliava molto ad un castello medievale, con tanto di torrette con i merli e storie di fantasmi che, come una calamita, attiravano la sua attenzione ma le procuravano eccitazione e ansia. Decise un giorno di saperne di più e di rivolgersi quindi a chi aveva la maggiore memoria storica di quella costruzione.
-Nonna mi racconti del castello!?-
Quella villa massiccia, le pareti grigie, le grandi finestre, il parco intorno, le statue di bellissime donne o strani bambini che aveva sentito chiamare puttini, erano nel suo immaginario da quando aveva cominciato a pensare:
-Che vuoi che ti racconti!?-
-Tu la sai tutta la storia, nonna… dei padroni, delle feste da ballo, dei fantasmi…-
-Allora, tanto tempo fa –cominciava con pazienza la nonna, i vivaci occhi castani che brillavano dietro gli occhiali, i capelli candidi raccolti a chignon sulla nuca- c’era un uomo intraprendente che possedeva navi e faceva il capitano; guidava i velieri con coraggio in mezzo alle tempeste e anche quando i suoi uomini erano bagnati fradici, impauriti, e invocavano la Madonna per la salvezza, lui dava ordini, forte e sicuro, senza cedere mai. Ma gli anni passavano, il sale gli ricamava le rughe sul viso, il sole glielo cuoceva, le bonacce si alternavano alle burrasche ma il suo tetto era sempre il cielo e la sua terra l’acqua del mare. Era stanco, non conosceva quasi i suoi figli, e sua moglie stava per lasciarlo, non sopportando più le sue continue assenze. Allora decise: -Ritorno a casa, alla mia isola, farò qualcos’altro…-
Aveva guadagnato tanti soldi e non aveva speso quasi nulla per sé: vendette tutto quello che possedeva e dette l’addio al mare. Investì i guadagni di una vita nell’acquisto della concessione dello sfruttamento delle miniere dell’Isola d’Elba, trasformandosi da lupo di mare in imprenditore. Dopo le prime difficoltà cominciarono a arrivare ricchezze, che divennero negli anni tante, insperate e quasi favolose.
Così si fece costruire un villa che avesse l’aspetto di un castello: un avamposto con due torrette sul mare e il resto dell’edificio più a monte; nel mezzo un viale alberato con statue e fiori…- la nonna fece una pausa che a Irene sembrò troppo prolungata- E’ questo il castello di cui mi chiedevi notizie! Sei contenta?-
-Ma nonna, non ti fermare tanto presto, raccontami ancora…-
-Irene, fammi prendere fiato, almeno… siediti qui e guardami mentre faccio la schiaccia briaca, così impari!- rispose la donna affaccendata a preparare il tradizionale dolce natalizio, senza il quale la festa sarebbe stata meno bella. La bambina non perdeva un gesto della nonna: la vedeva mettere la farina nella spianatoia, aggiungervi lo zucchero, un bicchiere d’olio d’oliva e uno di vino aleatico; poi, via via che quegli ingredienti si mescolavano in un impasto morbido, elastico e profumato, la osservava mentre, con mosse precise e sapienti, univa ad essi un trionfo di frutta secca, pazientemente sgusciata e grossolanamente tritata la sera prima: noci, mandorle, pinoli e poi ancora uva secca ammollata e la scorza grattugiata di un’arancia
-Ma quante cose, nonna! Anche questo dolce ha una storia, vero, come il castello, come il più semplice filo d’erba?.
-Certo, bambina mia- questo dolce noi lo chiamiamo schiaccia, perché non deve essere tanto alto di spessore, non ci si mette nemmeno il lievito; l’importante è lavorare bene la pasta e non dimenticarsi nulla. E’ un dolce strano: non ci sono uova, non c’è burro, latte, panna. Era ed è il dolce dei nostri marinai, anche di tuo padre, che naviga. Se lo possono portare a bordo -si mantiene a lungo nelle stive delle navi- e mangiarlo un po’ per volta. Sai, mi ha detto il babbo che cerca di farselo durare il più possibile, ne mangia un pezzetto al giorno per sentirsi a casa, in mezzo a noi anche quando è in mezzo mare..-
- Oh, nonna che bella storia anche questa! E poi che si fa?-
- Vedi, si unge una teglia, ci si adagia la pasta, ci si fanno dei buchetti sopra con la punta delle dita, vedi così…fallo anche tu… per decorarla con altra frutta secca triturata, zucchero e abbondante alchermes, che è un liquore dolce e rosso che le dà un aspetto allegro. E poi ancora un filo d’olio di quello buono…e il gioco è fatto!-
Irene con le sua mano paffutella formava tante piccole cavità sulla superficie dove gli elementi andavano a posarsi come in minuscoli laghi.
-Nonna, ma si chiama così perché c’è perché tanto vino? Ma non fa ubriacare chi la mangia?-
-Ma no, Irene mia, l’alcol evapora in forno e resta solo il sapore!!-
-E ora che facciamo?-
-La inforniamo…mi raccomando, aiutami a controllare il tempo: 40-50 minuti a 180 gradi…Sentirai che profumo…-
Che bello, pensava la bambina, sto aspettando il dolce più buono del mondo, fra pochi giorni è Natale e il mio babbo sta per tornare!
Il babbo stava per ritornare, infatti, e la sua presenza già aleggiava in ogni stanza e in ogni discorso e sicuramente, come sempre, sarebbe stato carico di regalini per i suoi bimbi, comprati in tutti i porti del Mediterraneo. E la festa sarebbe stata speciale.
-Allora, nonna, che mi dicevi di questo signore, del castello, della villa Bellariva!?-
- Ancora?...Non ti è bastato quello che ho detto finora?-
-Dai nonna, mentre aspettiamo che la schiaccia briaca cuocia…-
E seduta sullo sgabello ai piedi della nonna, con le mani sporche d’impasto, aspettava il suo racconto come un passerotto l’imbeccata.
-Ti dicevo che queste persone vivevano da principi: oltre alle ville, viaggiavano, avevano amici ricchi e potenti, possedevano un veliero bellissimo, con le vele di seta, invitavano qui all’Elba ospiti importanti, scrittori, politici, industriali, erano i signori del paese, la gente li chiamava così, i signori, senza aggiungere il nome, e ci si capiva al volo, non occorreva dire altro. I pesci più buoni, le orate, i dentici, i saraghi, i paraghi erano per loro; e così le aragoste, le granceole…i pescatori lavoravano per loro, i contadini lavoravano le loro terre: il fattore, che amministrava tutto, aveva una bella casa tutta sua con annesse le scuderie dei cavalli e si produceva tanto vino, olio, grano, frutta…
Giuseppe morì lasciando un immenso patrimonio ai suoi due figli, Ubaldo e Giuseppina e questo sor Ubaldo, come lo chiamavano in paese, diceva che nemmeno con una pala sarebbe riuscito a finire i suoi soldi…- Irene a queste parole si immaginava forzieri colmi come quelli di Paperon de’ Paperoni e Ubaldo, con la pala in mano, tutto sudato, che cercava inutilmente di svuotarli.
Poi l’odore inconfondibile del dolce che cuoceva e si insinuava in tutte le stanze, avvolgendole della sua fragranza, la strappava dalle fantasticherie: -Svelta, svelta, che si brucia…- s’affrettava la nonna e con un gesto rapido apriva quello sportello che per la bimba era come la porta dell’inferno e ne estraeva, cotta al punto giusto, mirabilmente profumata di buono, la ricompensa delle loro fatiche:
-Dai, Irene, prendi quel vassoio di porcellana, il più bello che abbiamo…aspetta da un anno la sua schiaccia briaca-
E mentre la nonna ripuliva la cucina e l’odore del dolce annunciava la vigilia:
-Ma, insomma, nonna, come è andata a finire questa storia!? Ce l’ha fatta o no il sor Ubaldo a consumare i suoi soldi?-
-Certo che ce l’ha fatta! C’è riuscito benissimo…tanto è vero che a un certo punto, a forza di spendere e spandere, s’è ritrovato quasi povero, ha dovuto vendere le sue ville a poco prezzo e mettersi a lavorare!-
A Irene questa mesta conclusione della storia, così diversa da quella delle fiabe che conosceva, metteva inquietudine: certo se l’era meritata il suo protagonista, però che peccato! Ne traeva la morale che sarebbe stata ben attenta ai soldi del suo porcellino salva-denaro, anche se erano così tanti che nemmeno riusciva a contarli…
Quando finalmente andava a letto, lo sciabordio del mare diventava nenia e poi dolce ninnananna: allora sognava i velieri che solcavano gli oceani, rossi come l’aleatico e il capitano intrepido, con la fetta di dolce in mano, che sfidava le tempeste come Achab la balena bianca.
Al mattino, le pareva che il sogno avesse la sua naturale conclusione nella tiepida realtà che l’aspettava fatta del profumo della schiaccia briaca e del fragore delle onde sotto casa. Allora, con gli occhi chiusi, immaginava di navigare quel mare, con suo padre, e pensava che non avrebbe avuto paura di lui, neppure se si fosse scatenato, perché lei aveva gli argomenti giusti per ammansirlo e ridurlo alla bonaccia, come aveva fatto San Francesco col terribile lupo di Gubbio. Si sentiva una creatura marina e si meravigliava di non odorare di sale o di non avere alghe per capelli.

Da I piatti de LA GAIA MENSA. Concorso letterario Villa Petriolo 2010


Ricetta schiaccia briaca
gr. 600 farina
gr. 300 zucchero
¼ di litro d’olio extravergine d’oliva
¼ di litro di vino rosso (meglio aleatico)
gr.300 di frutta secca grossolanamente tritata (noci, mandorle, pinoli)
gr. 50 uvette secche ammollate
la scorza di un’arancia
una spruzzata d’alchermes
Amalgamare tutto a lungo, spianare su una teglia oliata, mettere sopra ancor zucchero, vino, olio, alchermes e frutta secca. Infornare e cuocere per 40-50 minuti a 180 gradi.

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