Magazine Cucina
Oggi pubblichiamo il bel racconto “Spallatonda e Masticabrodo” di Vanni Marchioni per “La gaia mensa”, il quarto concorso letterario di Villa Petriolo.
Vanni Marchioni nasce ed abita a Firenze.
E’ responsabile marketing/commerciale di Pitti Immagine Filati Firenze, Milano, Tokyo, Shanghai, Seoul.
Sommelier A.I.S., gruppo servizi regionali, ama la lettura, il teatro, i viaggi, il fitness, il cinema, la canoa fluviale, la pesca con la mosca. E’ inoltre appassionato di entomologia e micologia.
Racconto “Spallatonda e Masticabrodo” di Vanni Marchioni
Masticabrodo aveva nove anni e nove fratelli. Era il più piccolo e portava i capelli a spazzola.
Il suo vero nome, Ultimo, era piuttosto sintomatico sulle future aspettative prolifiche dei genitori.
Ultimo era un sognatore a occhi aperti, abile e arruolato costruttore di meravigliosi castelli in aria, un domatore di speranze, venditore distratto di fumo e scintille. A spasso per sentieri inesplorati, su e giù per discese ardite (e relative risalite), con la testa tra le nuvole e un arcobaleno sottobraccio, dimenticava ogni sera la minestra nel piatto. Fu così che divenne un mastica brodo, uno che la sua strada la percorre tutta, prendendosela comoda.
Masticabrodo soleva spesso inventare un ritornello per divertire i fratelli commensali. Durante una cena d’inverno la precaria fedeltà paterna fu oggetto di facile ma scivolosa ironia: un soffritto di verità e una bugia di quelle grosse. Due cipolle rosse e quattro Borrettane. Una corsa folle, dietro alle sottane. Patate novelle e novelle patetiche, primizie e mestizie, legumi e legami: la zuppa l’è cotta. La ricetta del giorno, declamata a gran voce, divenne una pozzanghera di sabbie mobili dalle quali Masticabrodo non seppe tirarsi fuori. Il padre buttò giù il boccone amaro e applaudì con lento sarcasmo, meditando vendetta, nel silenzio stopposo che avvolgeva la serata e tutta la famiglia.
Frasi fatte e finalità evidenti: la crisi, la congiuntura, i soldi che non bastano mai.
“Non possiamo tenerli tutti. Magari l’ultimo, forse Ultimo”. Il capofamiglia pronunciò con noncuranza la sentenza di esilio e Masticabrodo fu venduto a buon prezzo a una comunità di nomadi circensi. Una bocca in meno da sfamare e una spia ben confinata, due piccioni con una fava.
* * *
Spallatonda, funambolo utopistico (di necessità virtù). Un decennio a saltabeccare in ogni dove, in equilibrio precario sulla corda tesa della sua vita. Un passo dietro l’altro, senza guardare giù. Re del trasformismo, principe dell’imboscamento, potenziale alfiere di un’imboscata. Si guadagnò il nomignolo grazie alla sua innata abilità nel saper sparire nel nulla, al momento opportuno: in fase di montaggio delle attrezzature, piegatura dei teloni, trasporto di materiali ingombranti, imboccatura di bestie feroci. Una spalla tonda, dalla quale scivola a terra il manico di ogni borsa pesante.
Spallatonda era stato concepito sotto il tendone, da madre contorsionista e padre rappresentante di trapani industriali a iniezione idraulica. Un incontro romantico e passionale, fatto di posizioni scomode e buchi nell’acqua. Dopo nove mesi interessanti, la snodata circense e il piazzista, sciolte inibizioni e vecchie relazioni, abbandonarono il neonato al suo nomade destino e fuggirono in sella all’Alfasud bianca del principe del foro.
* * *
Inutile dire che divennero amici: ben presto, presto e bene. L’uno la naturale conseguenza dell’altro. Il nuovo e il vecchio, entrambi figli illegittimi della stessa sorte. Introvabili all’occorrenza, ineguagliabili illusionisti. Invisibili a chi non vuol vedere. Masticabrodo guardava le stelle, dalla gabbia degli animali in letargo. Spallatonda dormiva sulla paglia di una stalla.
Dalle stelle alle stalle, entrambi sognatori, entrambi così soli.
Refrattari all’esibizionismo (non sorridevano con convincente plasticità), divennero addetti alla cambusa. Il che significava cucinare per artisti e borseggiatori, fiere e roditori, plantigradi ciclo-patentati, pulci equilibriste, inservienti ungulati, trote salmonate, orchestrali improvvisati, zanzare tigri, ventriloqui, topi ragno, parcheggiatori e trampolieri.
S’inventarono una serie di ricette infallibili, per condividere felicità transitorie e accontentare tutti: tagliarono a fette l’atmosfera pesante, per incoraggiare il volo pindarico della donna cannone. Fecero bollire tutte le cipolle, per non far piangere il pagliaccio. Montarono la panna con le fruste del domatore, per addolcire la bocca del leone. Ruppero le uova nel paniere di beni dell’economista, per ridurre il costo del biglietto d’ingresso. Abbassarono i fornelli perché il nano mangiafuoco potesse raggiungerli comodamente. Caramellarono e candirono il frutto del loro lavoro: gomitoli di zucchero filato, fili d’erba da suonare, pensieri spensierati, aria fritta per il qualunquista, uova in camicia bianca sotto la giacca del presentatore. E ancora: trippa per gatti, verdure di stagione, emozioni discordanti, terza abbondante e quarto anteriore, batticuore, pane raffermo, malinconia condivisa, concentrato di pomodoro, un nonnulla di acidità, fagioli con l’occhio clinico, radicchi di Campo dei Fiori, vecchi amori e piacevoli odori, scorza dura d’arancia vissuta, eternità effimera, biscotti della fortuna, sogni nel cassetto, speranze maltagliate, spaghetti alla bolognaise.
Mescolarono una parte di realismo e due di surrealismo, un pizzico d’ironia e quanto basta d’immaginazione. Aggiunsero un bel po’ di farina del loro sacco e si tuffarono nella storia.
Fuoco al fornello sotto il pentolone! Una miccia sotto il cannone.
Giù il sipario, si entra in scena.
Ricetta esplosiva, reazione a catena.
Un bel botto e spiccarono il volo: Spallatonda e Masticabrodo, viaggiatori evasivi, in fuga sulle ali della libertà. Gli applausi del pubblico furono tutti per loro. Gli spettatori alzarono lo sguardo oltre il boccaporto della cucina, al di là del tendone, verso il cielo. La fantasia esiste davvero.
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