Trovo più che mai auspicabile il ritorno a una letteratura, una narrativa che non sia immediatamente rivolta al racconto in presa diretta della realtà. E reputo oltremodo necessari e preziosi libri (e dunque autori) che conservino oggi il coraggio intellettuale di andare, in tempi di facile e scontato iper-realismo, tanto nella lingua quanto nella scelta delle cose da raccontare, controcorrente. A confermarmelo, semmai ve ne fosse stato bisogno, l'ottimo esordio romanzesco di Fabrizio Ottaviani, finora conosciuto e apprezzato come brillante critico militante de «Il Giornale».
Con il suo La gallina (edito da Marsilio), Ottaviani ci regala infatti una storia di scarna essenzialità narrativa, attingendo con sorvegliata misura ai toni esilaranti della farsa, qui marcatamente virati di humor nero.
Un bizzarro e buffo dono, la gallina del titolo appunto, recapitata da una misteriosa vecchia abbigliata come uno spaventapasseri in casa di Elena e Massimiliano De Giorgi, stimata famiglia dell'alta borghesia d'una ricca imprecisata cittadina europea, diviene l'inatteso elemento dirompente a spazzare e mettere in crisi la presunta normalità della vita dei coniugi (e dei domestici di casa), fino all'inevitabile catastrofe (che sin dal sinistro avvio viene lasciata facilmente intuire al lettore): la «caduta di casa De Giorgi». Dall'interrogarsi sul mistero di quel curioso regalo alla necessità di sbarazzarsene in fretta per ragioni di decoro e rispettabilità, la carica distruttiva innescata da quella indesiderata e inquietante presenza animale segna un'escalation di lacerazioni e attriti, invidie e ripicche, debolezze e pretenzioni. La gallina, fungendo da detonatore assurdo, risulta essere dunque la vera protagonista della storia, allegoria della condizione umana, o meglio della miseria morale dalla quale non salva nemmeno l'accomodante bugia di «un'abitudine senza usura»; che quando si spalanca, lucido, lo sguardo sulla desolante regione del nostro quotidiano, la minaccia d'estinzione già incombe. Ma funziona forse e ancor più come impietoso monito contro ogni trascurato cedimento, smarrimento privato o collettivo.
Come a voler far conoscere i singoli universi esistenziali d'ognuno, Ottaviani fa entrare in scena ciascun personaggio nel momento cruciale dell'incontro con la spiazzante grottesca novità, costruendo un simmetrico contrappunto di rapporti e alleanze incrociate tra le due coppie: i padroni di casa Max ed Elena e i due domestici, il maggiordomo Anselmo e la cuoca Irene, «copia attiva» e rissosa dei loro padroni; tutti presto inesorabilmente coinvolti in un'asfissiante spirale di crescente ottusità. A suggellare lo «stigma del grottesco» non poteva infine mancare il risvolto legale, similkafkiano, della faccenda, con tanto di celebrazione di un paradossale processo per corruzione di cui il sinistro dono costituirebbe la prova (di scoperta ascendenza kafkiana riescono inoltre taluni luoghi come il tribunale fatto di lastre trasparenti di cristallo, perché tutti possano seguire dall'esterno lo svolgimento d'ogni processo, e l'imponente sede delle Nuove Imprese Stabili, nel cuore della città, un grattacielo-pendolo in vetrocemento dal precarissimo equilibrio).
Asciutto, nel suo prefigurarsi come minimale meccanismo, esperimento narrativo più che vera autentica narrazione (tanto che sin da subito monta la curiosità per il lettore di sapere fin dove lo scrittore voglia menare la danza), il teatrino grottesco allestito da Ottaviani colpisce per il suo filare dritto al punto, con implacabile, appuntito e chirurgico dettato, senza sbavature e mai nulla concedendo a leziosi indugi di colore.
Ottaviani, infine, non rinuncia a raccontarci, epperò sempre nella sua maniera allegorica, della storia attuale del nostro Paese, quando inserisce nel romanzo quel medaglione figurale (quasi una visione decontestualizzata dal resto) del ragazzino che si affretta ad abbozzare sulle pareti translucide del palazzo di giustizia una mongolfiera tricolore che trascina in cielo due passeggeri: uno ghignante e armato di lanciafiamme, l'altro che tenta di bloccarlo, ma terrorizzato di compromettere del tutto la gita in pallone. Un'iconetta assai eloquente (più di mille spiegazioni) sull'Italia e il carattere bifronte degli italiani.
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