Interessante debutto di una giovane scrittrice israeliana, Shani Boianjiu.
Madre irachena di Bagdad, padre romeno, nata a Gerusalemme (per caso) nel 1987, Shani è cresciuta in una località posta sei miglia di distanza dal Libano, dove la biblioteca della scuola elementare era pure un rifugio antimissile. Storia di frontiera, la sua; caratterizzata da confidenza costante con una situazione di guerra, imposta dalla realtà assurda in cui Israele -unica democrazia occidentale in un mare di dittature e di odio antiebraico- è costretto a vivere, prima ancora che fosse formalmente costituito come Stato.
Una confidenza che si concretizza nei tre anni di servizio militare (due per le ragazze) svolto da ogni giovane del Paese allorché termina la scuola media superiore. Proprio quando, come l’Autrice ha dichiarato di recente “…a diciotto anni hai un milione di cose da fare: la famiglia, la musica, i libri, stare un po’ sola. Non vedevo l’ora che finisse”. Dunque…una gabbia, se vogliamo; ma anche un’occasione di crescita e di emancipazione dalla famiglia, oltre che un dovere civile imprescindibile: “….è moralmente inaccettabile che qualcun altro lo svolga al posto tuo…e anche oggi, a ventisei anni, rimango riservista”.
Da questa esperienza è nato un libro insolito, una preziosa testimonianza; quella cioè di una giovane poco più che ventenne alle prese con l’esercito di Israele, Tsahal. I maschi restano per lo più sullo sfondo o relegati al ruolo di comprimari.
La gente come noi non ha paura è stato scritto in inglese negli USA, dove l’Autrice si era recata (dopo la ferma obbligatoria) per terminare gli studi universitari ed è uscito là lo scorso autunno. Per l’interesse suscitato la National Book Foundation americana ha segnalato Boianjiu tra i Cinque migliori Autori sotto i trentacinque anni. Ora Shani lo sta traducendo in ebraico -pure questo interagire di linguaggi è di notevole interesse- per farlo conoscere ai connazionali; e già immagina che non mancheranno le polemiche.
Due parole sul titolo, The People of forever are not afraid. Si tratta della prima frase del detto di un rabbino, che veniva applicata con un adesivo fosforescente sui missili lanciati in territorio nemico. La seconda ne consegue: “Non possiamo affidarci ad altri che al nostro Padre celeste”.
Il romanzo racconta le vicende di tre compagne di scuola le quali, terminato il liceo, lasciano il piccolo centro nel Nord del Paese in cui sono cresciute insieme e le rispettive famiglie per compiere il servizio militare. Da quel momento le loro esistenze si separeranno.
Yael insegna a sparare ai ragazzi in un campo di addestramento, senza disdegnare affatto incontri amorosi con alcuni di loro. E’ lei che accoglie noi lettori fin dalle prime pagine ed è sempre lei che, alla fine, ci saluta, per così dire anche a nome delle altre amiche.
Lea, personalità complessa e tormentata, è membro della polizia militare (quelli, “famigerati”, col basco blu); immagina le vite di coloro che ogni giorno attraversano il checkpoint dove è di pattuglia. In particolare attrae la sua attenzione Fadi, un palestinese di mezza età il quale, all’improvviso, pugnala a morte Yaniv, un commilitone della ragazza. Un’esperienza che la segna in modo profondo.
Avishag è nata nella famiglia Zubari -“la più grande famiglia irachena di tutto Israele”-. Figlia di Mira, l’insegnante dai capelli color arancione, finto, e sorella di Dan (morto durante la leva in modo tragico ed insensato), diviene guardia alla frontiera con l’Egitto. Ha il compito, in apparenza monotono ed alienante, di controllare i passaggi di merci e persone tramite un monitor verde ed assiste alla strage, da parte degli egiziani, di profughi sudanesi che tentano di entrare in Israele, da loro chiamato “il piccolo Paese”.
La nostra storia, suddivisa in tre parti, accompagna le protagoniste dalla fine della scuola, al periodo della leva fino a quando, terminato il servizio, rientrano nella vita civile. Da poco più che adolescenti -altra gabbia, l’adolescenza, allorché nessuno parrebbe disposto ad aiutarti!-, a persone adulte, forse disilluse, le quali debbono affrontare le sfide imposte dalla vita quotidiana, sfide inserite in una realtà complicata quale è Israele.L’ultima parte del libro ci mostra uno scontro duro e diretto tra uomini e donne in un quadro intrecciato di realtà e finzione. Immaginabile che possa suscitare un certo scalpore in Patria; anche se è noto che, nel Paese, gli scrittori e la stampa in genere sono adusi, nei confronti dell’esercito, ad una libertà di critica difficilmente concepibile altrove.
Perno del romanzo è comunque il periodo del servizio militare, della tzavah come si dice.
Due anni di dolore, amori, incontri, solitudine, fantasie sessuali tipiche dell’età, risate, pianti, bisticci, scherzi (uno, in particolare, davvero spiazzante e gravido di serie conseguenze), noia per il quotidiano e pazzie incredibili, disillusioni, pensieri sui paradossi caratteristici di una situazione di guerra, specie permanente: “…I palestinesi devono posare carte d’identità e documenti sul cofano della macchina e poi alzare il finestrino mentre il soldato si avvicina per esaminarli…nessuno seguiva queste regole….”
Il linguaggio è quello semplice, fresco e sbrigativo dei giovani, spesso paradossale e striato di nonsense, in cui le voci narranti si alternano; oggi e ieri si danno il cambio. Per tale motivo, a mio avviso, un minor numero di pagine avrebbe senz’altro giovato all’asciuttezza del testo. Ironia talora feroce, espressione di vita vissuta, senza mediazioni, nel contrasto, sempre presente, tra disposizioni, più o meno astratte, e cruda realtà sul campo; tecnologia e sangue. Dilemmi frequenti, in specie sul piano militare: arrestare o no un gruppo di arabi nel quale spicca un ragazzetto che, ben istruito dagli adulti, s’impegna a fondo per farti reagire e creare così quel…casus belli buono per mandare in solluchero i giornali di mezzo mondo, sempre pronti a demonizzare ogni mossa dello Stato ebraico?
Zero ideologia e zero ricette preconfezionate su questa o quella questione politica, conflitto con i palestinesi in testa. Finalmente, verrebbe spontaneo pensare! Forse ciò risiede nel fatto che le giovani generazioni, come afferma pure la stessa Shani, hanno perduto la speranza di pace per chissà quanto tempo e cercano di vivere giorno dopo giorno, senza i grandi ideali che hanno nutrito genitori e nonni. Non c’è un briciolo di retorica guerresca -del resto inimmaginabile, oggi, nei Paesi democratici-, ma neppure il politicamente corretto, per lo più astioso ed unidirezionale, tanto di moda nella cultura dell’Occidente. Certe vicende dolorose sono appena accennate, come il caso Ghilad Shalit, all’epoca della redazione dell’opera prigioniero di Hamas; o una vicenda, ormai lontana nel tempo, molto drammatica, conclusasi (tutto sommato) in modo positivo, ma che fece molto discutere nel mondo.
L’Autrice dà prova di notevole coraggio ed onestà culturale allorché affronta temi difficili e controversi e sa smontare, grazie al caratteristico stile disincantato, solidi tabu all’arsenico. “…Huda, la ragazzina palestinese sulla spiaggia. La foto sul giornale la ritraeva mentre urlava nella sabbia rossa, accanto ai corpi mutilati delle sei persone che erano state la sua famiglia…Tutto il mondo diceva che era stato l’esercito israeliano con un attacco aereo a massacrarli, ma nell’esercito israeliano si sapeva che la famiglia era stata uccisa da una mina che i miliziani palestinesi avevano lasciato in riva al mare”.La difficile situazione peraltro non fa dimenticare la realtà umana di due popoli che i paradossi della storia chiamano a vivere fianco a fianco; piaccia o meno ai rivoluzionari di professione ed antisemiti d’ogni risma.
Con divertita tenerezza, quasi mista a complicità, sono ritratti i giovanissimi arabi, abituati al furto fin da piccoli: di cipolle da portare alle madri per la cucina, ad esempio; o di parti di recinzioni metalliche che isolano le zone militari israeliane, o magari di elmetti e confezioni di olio solare alla vaniglia sgraffignati alle soldatesse, vittime preferite delle loro scorribande.
Le nostre ragazze si parlano e si confrontano in modo serrato tra loro; non si perdono mai davvero di vista, anche se magari, per alcuni periodi, le loro vite imboccano strade diverse.
Talvolta hanno paura, ma, al tempo stesso, sono coraggiose nell’affrontare i pericoli e sanno ridere delle proprie debolezze. Sono l’espressione di quel posto “che per tutta la vita ho chiamato Israele. Dove si vive un po’ tristi e spaventati, spesso anche felici”.