Ora possiamo provare e abbiamo il dovere di essere tutti più giusti. Anche i giudici. È, in fondo, il senso delle parole che il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha pronunciato ieri, affiancato dal neoministro della Giustizia, Paola Severino, alla cerimonia di insediamento del comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura. Noi tutti che veniamo da quasi un ventennio di scontri politici e istituzionali tra governo e associazione dei magistrati, tra ministri e pm, tra berlusconiani e antiberlusconiani, non possiamo non accogliere le parole di Napolitano non solo come un invito al senso della giustizia praticato nel corpo vivo delle istituzioni ma anche come la necessaria occasione storica che si attendeva per riformare il sistema giudiziario e innalzarlo agli standard europei. Proprio il capo dello Stato ha fatto esplicito riferimento «al momento particolarmente difficile e complesso» per poi esprimere l’augurio che il ministro Severino «promuova quel confronto costruttivo che auspico da sempre e senza il quale non possono recuperarsi né l’efficienza né quel limpido e razionale funzionamento del sistema giustizia al quale occorre mirare con rigore, serenità e senso del dovere».
Napolitano ha parlato – potremmo dire utilizzando una parafrasi del titolo di un libro di un filosofo italiano recentemente scomparso come Franco Volpi ora uscito da Adelphi – con la sua solita «civile chiarezza». È possibile che non intenda solo chi non vuole intendere. È bene utilizzare la stessa chiarezza del Colle. L’occasione storica per riformare il sistema della giustizia italiana è data dall’uscita di scena a Palazzo Chigi di Berlusconi. Fino a quando al governo c’era l’uomo che, al di là del bene e del male, ha unito e contemporaneamente diviso gli italiani alla maniera in cui in uno stadio si dividono, perfino militarmente, le due tifoserie, ebbene, la riforma della giustizia non è stata possibile farla. La giustizia, con Berlusconi al governo, è stato per ben due decenni il nervo più scoperto dell’intera vita democratica. I ministri si sono succeduti ma al cambio della guardia a via Arenula, da Bondi ad Alfano, da Conso a Diliberto passando per Flick e Castelli fino a giungere a Nitto Palma, non ha mai corrisposto una riforma condivisa, come deve essere soprattutto quella del sistema giudiziario, ma polemiche politiche e scontri istituzionali che hanno fatto parlare i commentatori e anche gli storici di «guerra civile virtuale» o «guerra civile mentale». Al governo Berlusconi, con qualunque ministro alla Giustizia, non si è mai riconosciuto la legittimità di intervenire nella giustizia. L’accusa che ogni volta scattava era fin troppo scontata: ciò che muove il presidente del Consiglio a riformare la giustizia è solo il suo interesse a non farsi processare. E, in verità, le leggi sfornate dai governi Berlusconi in più di un’occasione sono state proprio ad personam: fatte su misura delle esigenze processuali del presidente del Consiglio come il sarto gli cuce addosso i suoi vestiti. A loro volta, però, i berlusconiani replicavano che la giustizia era giacobina, a orologeria e, insomma, c’era un uso politico della magistratura e della giustizia.
Una controaccusa che, come l’accusa delle leggi ad personam, aveva la sua parte di verità storica che era particolarmente evidente perche quando, si faceva notare – lo specialista del ramo è sempre stato Cicchitto -, Berlusconi era solo un imprenditore non suscitava l’interesse dei pm, invece, una volta “sceso in politica”con un discreto successo si è trasformato nel politico e nell’italiano più indagato d’Italia. Comunque si giudichi la vicenda politica, rimane un fatto storico che nel ’94 l’allora premier Berlusconi, nel giorno in cui a Napoli presiedeva il summit del G8, ricevette a mezzo stampa dalla prima pagina del Corriere della Sera il primo avviso di garanzia firmato dal pool di magistrati di Mani Pulite. Ora, se Dio vuole, questa storia è alle nostre spalle. Dunque, possiamo fare quella riforma della giustizia che serve al Paese e agli italiani e non quella che sarebbe servita al politico Berlusconi o quella che sarebbe servita ai giustizialisti. Perché il punto è proprio questo: la riforma è necessaria.
Al tempo in cui si discuteva dei parametri di Maastricht per – come si diceva allora – entrare in Europa e dare vita all’Euro e giungere fino ai nostri giorni in cui gli Stati indebitati fanno tremare banche, finanze e la moneta unica, si parlò anche di «una Maastricht per la giustizia». Una formula non particolarmente esoterica che, in sostanza, metteva in luce le deficienze del sistema giudiziario di casa nostra. A partire, soprattutto, dall’inesistenza del “giudice terzo” visto che in Italia non vige la separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e dei magistrati inquirenti o pubblici ministeri. Non è un caso che il più delle volte la discussione tra le parti si sia arenata proprio sulla questione della “separazione” e si sia fatto ricorso al compromesso della separazione delle funzioni. Ma al tempo la discussione era viziata all’origine e il dialogo sulla riforma – che generò anche una commissione Bicamerale presieduta da D’Alema – era un dialogo tra sordi fatto non per intendersi ma per fraintendersi. Per altro, non era neanche un dialogo tra i due schieramenti politici e parlamentari ma un confronto che prevedeva sempre e comunque il convitato di pietra della magistratura e della sua associazione di categoria. I giudici organizzati, in altre parole, sono stati sempre una parte attiva che – per stare al caso della separazione delle carriere – non ha certo favorito il percorso della riforma. Ma oggi, per riprendere l’auspicio di Napolitano, il confronto deve essere costruttivo perché è proprio questa la premessa indispensabile affinché il sistema giudiziario recuperi efficienza, trasparenza e razionalità. Anzi, proprio perché il politico e imputato Berlusconi non è più al governo, proprio la parte organizzata e attiva della magistratura ha il dovere istituzionale di facilitare il dialogo e spianare la strada a una riforma che non può essere fatta né per tutelare corporazioni, né per avvantaggiare partiti, né per conservare privilegi. Napolitano spera che la Scuola superiore della magistratura sia utile per la maturazione di una cultura giuridica non nozionistica e per l’adozione di «un valido codice deontologico volto ad affermare il necessario rigore nel costume e nei comportamenti del magistrato». In questi anni di “guerra civile virtuale” troppi pm sono diventati politici e leader politici. E, allora, il primo buon costume è quello di ritornare ognuno al proprio lavoro e riformare con senso istituzionale la giustizia.
tratto da Liberal del 25 novembre 2011