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Il suo film è insopportabile per molti tratti, non lo nego, ma con il passare dei minuti capisci che l'intenzione è quella di massacrarsi da sé, non c'è nessuna arroganza. Coi suoi dolly e le sue furbate, con la voce di Moretti e Bellocchio, ma senza la loro rabbia esistenziale e civile, Sorrentino si mette sullo stesso piano di ciò che rappresenta e si svela per quello che è: un artista autoindulgente (e chi non lo è, autoindulgente, con la propria vita? L'alternativa è il suicidio, o la fuga, non è che ci sono troppe scappatoie dall'egoismo) che sa di sopravvivere come tutti gli altri: compromesso eppure unico, farabutto eppure diverso. La grande bellezza, contro ogni mia aspettativa e contro ogni mio desiderio capriccioso di veder confermate idiosincrasie e odi cinefili, funziona perché è finalmente onesto con se stesso, la bellezza la cerca come tutti e come tutti crede di trovarla e condividerla, nuda, povera, nonostante i vezzi che conosciamo, e per questo, almeno stavolta, ingiudicabile. Il fatto che non sia la mia idea di bellezza, che io detesti come molti i carrelli accompagnati da un violoncello dolente, non c'entra nulla; se così fosse, se dovessi giudicare un film da quello che spero o voglio trovare, o dovrei fare un altro mestiere, o dovrei concepire un film come un gioco in scatola, da decifrare e sconfiggere. E invece il cinema lo fa Sorrentino, gli si può imputare di tutto tranne di volersi nascondere, e io posso anche pensare che il suo modo di girare o scrivere non si adatti al mio modo di vedere, ma se la bellezza è là fuori, e al tempo stesso è dentro ciascuno di noi, e se la bellezza non esiste oppure è così tanta da essere indistinguibile da tutto il resto, l'unica cosa che resta, prima della fuga o del suicidio, è la ricerca onesta di chiunque abbia la curiosità di aprire gli occhi. Dentro la scena, rischiando di abbagliarsi.
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