Jep Gambardella è un fine intellettuale che nonostante i 65 anni appena compiuti continua a fare il viveur senza moderazione: feste orgiastiche sui tetti di Roma, irrorate di alcol, droga, belle donne e disinibizione. Assieme a lui c’è un gruppo di fedelissimi e sedicenti intellettuali, anch’essi di mezz’età, che hanno alle spalle una vita fallimentare nonostante le aspirazioni artistiche. Diversamente da loro Jep ha la concreta consapevolezza del disgusto della vita che conduce ormai da trent’anni e da cui è troppo tardi per fuggire, si rassegna quindi al suo destino che gli ha fatto sprecare un’esistenza alla ricerca di qualcosa in più rispetto alle persone comuni, alla ricerca della grande bellezza che purtroppo non ha mai trovato.
Con La grande bellezza (2012) Paolo Sorrentino crea un’altra piccola gemma nella sua collezione di pellicole colte ed eleganti, così come aveva fatto con Le conseguenze dell’amore (2004). Questo film non racconta solo la vita di Jep ma anche, e soprattutto, il grande amore per la città eterna, bella più che mai, come lo era nei film felliniani; la bellezza della città sgorga impetuosa da ogni inquadratura, suggestiva ed artistica come un quadro, e ricorda l’ode cantata da D’Annunzio sulla Roma papale de Il piacere; fanno capolino il Colosseo ed i Fori Romani, ma è il barocco che riempie la scena, con le sue volute e le sue sculture, ridondanti, bellissime, esagerate. Tutto è esagerato come la vita di Jep che sa bene di vivere il nulla e in qualche modo cerca una via d’uscita, timidamente, con poca convinzione forse, ma con la speranza che qualcosa accada. Tuttavia non succede nulla ed il carrozzone del grottesco continua a danzargli attorno; le caricature di persone che lo circondano si fanno più strette e lui percepisce sempre più forte l’insensatezza di questa esistenza. Dotato di un’intelligenza più sottile degli altri non riesce a non notare l’orrore di tutto lo sfavillare insulso della società in cui vive fatta di benpensanti ipocriti, ambiziosi senza talento, artisti che non sanno dire cos’è la loro arte o blateranti stereotipi culturali triti, vuoti, senz’anima. Solo Romano, amico e lacchè di Jep, magistralmente interpretato da Carlo Verdone, lui, sensibile ma insicuro, servizievole e bistrattato da tutti fuorché Jep, alla fine si accorge della melma in cui vive e trovala forza per tornare al paesello e lasciare Roma che lo ha deluso.
Con sferzante ironia Jep affronta la realtà e le macchiette che gli stanno intorno; da gentiluomo smaschera debolezze e vanità di tutti mettendo loro davanti l’infinita tristezza che subiscono ogni giorni; con battute caustiche vaporizza le istituzioni e annienta gli ambizioni senza arte né parte; sgretola le certezze dei raffinati moralisti alto-borghesi che si sentono una casta eletta rispetto al popolo bue ma che vive sentimentalmente meglio di loro. L’insostenibile vuoto delle persone gli provocano ribrezzo; la sua stessa incapacità di staccarsi da quel mondo, di elevarsi davvero gli provoca repulsione. Nell’affannosa ricerca della grande bellezza ha perso di vista la realtà e guarda con commozione chi ha trovato nella semplicità della vita quotidiana la sua realizzazione. I rimpianti si accavallano l’uno sull’altro, dal non essere stato in grado di scrivere un libro degno delle sue aspirazioni al non essere stato capace di creare dei veri rapporti umani, se non con la sua colf filippina, passando per quella più grande, che più di tutto ha segnato la sua vita, la perdita del grande amore, conosciuto, ma anche finito, quand’era giovane e che non è mai stato capace di dimenticare. E così vaga per la città, succhiando il midollo della vita, succhiando la vita della città, o meglio, godendosi gli avanzi.
Un film intenso, sopra le righe, a volte esagerato ma che ritrae alla perfezione lo squallore del presente, fatto di festini e niente più; alcune parti forse troppo lunghe e non ben legate con il resto, come quella in cui si svolge la vicenda di Ramona, una seducente ma triste streaper interpretata (bene) da Sabrina Ferilli, ma in generale un bel film, che ti fa uscire dalla sala con molte riflessioni da fare sulla vita; un grandissimo Toni Servillo, che testimonia sempre il suo talento, ancora di più in accoppiata con Sorrentino; una regia evocativa e poetica, accompagnata da musiche perfettamente calibrate al momento. Indimenticabile il monologo finale di Jep che, anche se non si vive nella scintillante, decadente ed ipocrita Roma dell’alta società, suona reale e condivisibile da tutti:
«È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l’emozione e la paura…
Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile.»