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"La grande bellezza" e il vuoto di senso

Da Sessuologiacagliari @DessiAntonio
Con difficoltà potremo dimenticare quest'immagine di un uomo di 65 anni che balla con la sigaretta tra i denti nel mezzo di una Babilonia disperata nel cuore delle notti capitoline. Il film di Paolo Sorrentino, "La grande Bellezza" ha vinto l'Oscar.  Lui è il re delle notti romane, Jep Gambardella, un giornalista che vive la sua crisi esistenziale in una Roma chiassosa e deconcentrante, con in mano l'ultimo e unico romanzo scritto a vent'anni, "L'apparato umano". E poi il vuoto. Un vuoto riempito da strass e diamanti finti, sandali gioiello e maschere variopinte e sguaiate che gli girano attorno, talmente vicine da provocare la nausea. La Roma nella quale lui cercava un senso, tra feste con "quelli che contano" in attici all'ultimo grido, e terrazze davanti ai luoghi più suggestivi e maestosamente silenziosi della capitale. Dissonanze, come quelle della sua vita. Un filo conduttore emotivo alla Grande Bellezza è la musica, spesso scollata dall'immagine, con la stessa violenza con cui il protagonista sceglie quella vita per sé, e scolla parti della sua storia. Un contrasto forte e deciso tra le pirouettes, e i sorrisi ghigno, a suon di "A far l'amore comincia tu" della Carrà e la maestosità della musica sacra, ciò che nessuno può evitare di sentire. Tra presenze bipolari, la disinibizione, abiti griffati e maschere parlanti, l'euforia delle feste è intervallata da momenti di contatto con ciò che emerge da Jef, se abbandona il chiacchiericcio, le urla, le impasse sessuali non consumate, come accade con diverse donne che si porta a letto. Una perfetta droga per fuggire da ciò che non si vuole sapere di sé stessi, e forse una difficoltà ad accettare qualcosa che non è andato e che dopotutto chiedeva di continuare: la sua passione per scrivere. Ogni tanto Jep porta a letto qualche bella donna ricca, anche se in realtà "a 65 anni non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare". Neanche il sesso può più funzionare in quel vuoto di senso dove Jep non riesce a trovare se stesso. Le serate vanno avanti così, tra balli, donne sguaiate e volgari, e la solitudine di chi bacia la cocaina, ad afflosciarsi nei salotti a discutere di vacuità,  perché "non ci si vuole misurare con la propria meschinità".
Il personaggio messo in scena da Toni Servillo, attore di indiscussa bravura, mostra la sua capacità di osservare l'esterno, ciò che vede, ma anche di mettersi in contatto con il proprio interno. Riconosce che tutti loro sono sull'orlo della disperazione e abbozza una soluzione: farsi compagnia e prendersi un po' in giro. La grande bellezza viene ritrovata nel silenzio, nella capacità di scendere nel proprio vuoto, nel senso di solitudine che si prova all'alba, quando Jep, insonne, cammina in una Roma che sembra disabitata. Quei momenti in cui sente che forse riprenderà a scrivere. Sono momenti di contatto con sé stesso, momenti in cui prende in mano la propria storia e inizia ad unire fotogrammi, a partire da quelli di una storia d'amore della prima giovinezza. Era giovane e pieno di fiducia. Ma al di la del suo fallimento reale con una giovane donna che al tempo gli piaceva tanto, la storia d'amore fallita sino a quel momento è quella verso se stesso. Non a caso la figura della Santa nel film gli rimanda un'immagine, quella delle radici. La Santa ha vissuto tanto perché si nutriva di radici, e questo restituisce un senso secondo cui è possibile vivere se si è presa in mano la propria esistenza e non la si è lasciata sfuggire o catturare dall'euforia, la droga che annestetizza dolori, ma che ti fa risvegliare con lo stesso peso di prima e forse con la sensazione di essere proprio "meschino", come dice Jep. Una città meravigliosa Roma, si, consegnata ai turisti, e invisibile ai Romani, così come la vita di Jep, che per tanto tempo è stata consegnata alle feste, "il re delle feste", sconosciuta a se stesso o interrotta per quello che provava. Qualche "momento di musica sacra" che si muoveva sotto il carnevale delle feste, i divani in vimini delle terrazze del "facciamoci compagnia", e un unico punto fermo: il suo romanzo scritto, a testimoniare il suo punto di interruzione. A vent'anni.  Con un processo parallelo Roma viene mostrata nella sua austera bellezza, sapore di storia, di storie, di intrecci. La bellezza è la storia, darsi la possibilità di ricostruirla. Quella storia che si attraversa ogni giorno senza guardare, senza conoscere, magari prima di recarsi in una delle vetrine di via dei Condotti. Così la vita di Jep è una vita non vista, prima di tutto a se stesso. E nessuno può notarla se non è lui il primo a farlo. La musica sacra, l'emergere della sua storia, immersa nel chiacchiericcio di maschere senza occhi, per se stesse, e ancora di più per gli altri.
Un vuoto di senso, si, se si ascolta la "musica sacra", i nostri sentimenti verso la nostra storia. Il film mette in luce quanti bellissimi luoghi pieni di storia vengano calpestati dall'euforia, da esistenze disattente a se stesse, e incuranti delle altre. Esistenze dove anche il Colosseo diventa "una cosa nel paesaggio" e non una storia che racconta storie. Così si parla di vite calpestate, di donne e uomini mascherati durante la sera, che la mattina si risvegliano e non hanno il coraggio di guardarsi in faccia.


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