All’età di 30 anni, avendo adempiuto alla sola scuola dell’obbligo, mio padre aveva già messo abbastanza da parte per comprarsi un terreno, su cui poi ha edificato la nostra casa, sposare mia madre e fare due figli, progettare il futuro della propria famiglia, garantendole una vita decorosa, togliersi qualche sfizio.
A quella stessa età, 30 anni, con una laurea in tasca, mi ritrovo precario, con prospettive future alquanto nebuolse e con due scelte possibili: emigrare (dal Sud – come ho, effettivamente, poi fatto – o dall’Italia) o chinare la testa e accontentarsi di quel che passa il convento, sperando in qualche colpo di fortuna. A dar retta all'Eurostat, sono sempre più i giovani italiani che scelgono la prima opzione, con destinazione terra straniera. Sono i cervelli in fuga.
Il fenomeno non è certo nuovo, anzi (siamo, da sempre, un popolo di migranti), ma cambia la tipologia di chi parte: dimentichiamoci il poveraccio con la valigia di cartone, perchè il nuovo emigrante italico, spesso, parte con la ventiquattr'ore ed una laurea in tasca. Secondo i dati dell'istituto statistico europeo, infatti, tra i nostri connazionali, che ogni anno, vanno in cerca di fortuna fuori dai nostri confini, circa 5 mila sono laureati: medici, ingegneri (sono il 24% del totale), economisti (il 15%), linguisti (il 13%), ma anche sociologi, insegnanti, musicisti, grafici e molto altro. Tutti con un comune denominatore: la voglia di emergere, di poter lavorare a condizioni dignitose ed in linea sia con i loro studi, che con le loro aspirazioni personali; tutte cose che, ormai, il nostro Paese non è più in grado di offrire.
Intanto, il fenomeno sta diventando endemico, con ripercussioni preoccupanti per il futuro dell'Italia: un'intera – possibile – classe dirigente politica, economica e culturale sta lasciando il Paese, con l'intenzione di non tornare indietro, letteralmente cacciata via da un sistema lavorativo indecente, fatto di contratti precari, stage gratuiti e semischiavitù, agli ordini di baroni inamovibili.
Un danno che non è solo umano e culturale, ma anche e soprattutto economico, dato che, per formarli, il sistema educativo italiano spende circa 175 milioni di euro l'anno; soldi che dovrebbero essere un investimento per il futuro, ma che diventano, invece, un costo, poichè i nostri giovani migliori vanno a produrre ricchezza e sviluppo in altre nazioni. Nazioni come il Regno Unito, verso cui emigra, ogni anno, il 16,7% dei laureati che espatriano; come la Germania, che ne accoglie il 12% o gli Stati Uniti, verso cui partono il 7,3%. E, ogni anno che passa, sono sempre di più.
Già in passato, sono stati fatti dei tentativi, per riportarli indietro: l'ultimo, in ordine di tempo, è stato il Programma Ricercatori Rita Levi Montalcini – ideato per favorire il rimpatrio di ricercatori scientifici -, lanciato in pompa magna nel 2009, entrato in funzione solo nel 2010 e trascinatosi stancamente, tra tagli ai fondi e lungaggini burocratiche, fino ad oggi. Al 2013, aveva raggiunto il misero risultato di appena 44 ricercatori, tornati in Italia. Tante promesse, pochi fondi e idee pasticciate, buone solo per i notiziari, sono alla base del fallimento, tanto che, chi è rientrato, se n'è subito pentito.
Dalla prossima settimana, a detta del premier Renzi, il Governo si occuperà di Jobs Act e di lavoro, includendo, tra le altre cose, anche la questione di come fermare l'emorragia di cervelli. Speriamo solo che non si tratti dell'ennesimo slogan politico, perchè il problema è grave: serve, innanzitutto, un progetto serio di incentivi e investimenti che metta, realmente, in comunicazione le aziende ed l'università e che garantisca la selezione meritocratica dei migliori.
Serve un sistema di norme, organico e ben finanziato, non solo per permettere il rientro dei cervelli già fuggiti, ma anche per garantire il rientro di quelli futuri, dopo aver permesso loro di fare incetta di esperienza e di capacità all'estero, per non parlare, poi, della necessità di attrarre anche i laureati stranieri, in modo da "importare" idee, capacità ed intelligenze. Ne va del bene del Paese
Danilo