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La graziosa favola degli amori di Vertumno e Pomona

Creato il 08 settembre 2014 da Tanogabo @tanogabo2

Vertumno era una delle principali divinità degli Etruschi che presiedeva alle trasformazioni (da verto = volgere, cambiare), al cambio delle stagioni ed ai traffici. Il dio era conosciuto e onorato anche a Roma. Una statua di Vertumno, situata nel Vico Tusco, era incoronata dai piccoli bottegai con i fiori della stagione e gratificata con offerte di frutta mature o degli strumenti e vesti proprie del loro mestiere. 
Il dio si innamorò di Pomona, antichissima dea latina dei frutti, venerata con un proprio flamine (flamen Pomonalis) e un luogo speciale di culto, il Pomonal, sulla Via Ostiense. 
Per avvicinarsi alla dea Vertumno mutò il proprio aspetto più volte ma senza buoni risultati. Pensò di trasformarsi in anziana e Pomona volle avvicinarlo. Dopo varie vicissitudini i due si sposarono.

Questo culto popolare ha ispirato a Properzio una bella elegia (IV, 2) e ad Ovidio (Metamorfosi, XIV, 623 segg.) la graziosa favola degli amori del dio con Pomona che qui di seguito riporto.

Fra le Amadriadi latine nessuna con più cura di Pomona coltivava gli orti o più di lei era, appassionata delle piante da frutto: da qui viene il suo nome. E non sono boschi o fiumi a piacerle, quanto la campagna e i rami carichi di frutti maturi. La sua destra non stringe un giavellotto, ma una falce adunca con cui sfoltisce la vegetazione che trabocca e pota i rami che s’intrecciano fra loro o incide una corteccia per innestarvi una marza e offrire linfa al tralcio di un’altra pianta. E non tollerando che soffrano la sete, irriga con rivoli d’acqua le fibre contorte delle avide radici. Questo è l’amor suo, il suo impegno, e di amplessi non ha brama. Ma temendo la violenza dei contadini, recinge i frutteti ed evita l’intrusione dei maschi vietando loro l’accesso. Cosa non fecero per possederla i Satiri, giovani dediti alle danze, e i Pan con le corna inghirlandate d’aghi di pino, e Silvano, sempre più giovanile dei suoi anni, e quel dio che spaventa i ladruncoli con la falce e il pene!

Ma chi l’amava più di tutti era Vertumno, anche se non con fortuna migliore. Oh, quante volte camuffato da robusto mietitore portò spighe in una cesta, e del mietitore era il vero ritratto! Cingendosi a volte le tempie di fieno fresco, poteva sembrare che avesse rivoltato l’erba falciata. A volte nella mano rigida portava un pungolo, sì da giurare che avesse appena tolto il giogo ai giovenchi stanchi. Con una falce in mano era un colono che sfronda e pota le viti; con una scala in spalla pensavi che andasse a cogliere la frutta; con la spada era un soldato, presa la canna un pescatore. Insomma sotto gli aspetti più diversi trovava sempre il modo di godersi lo spettacolo di Pomona, della sua bellezza. Un giorno poi, avvolto il capo in una cuffia colorata e imbiancatisi i capelli sulle tempie, appoggiandosi a un bastone, si camuffò da vecchia, penetrò nelle sue piantagioni e ammirandone i frutti, esclamò: “Quanto sei brava, Pomona!” E alle lodi aggiunse una quantità di baci, come mai una vecchia vera ne avrebbe dati. Poi sedette tutta curva su una zolla, ammirando i rami incurvati dai frutti dell’autunno. C’era di fronte un olmo avvolto da un rigoglio d’uva luccicante. Elogiato l’olmo insieme alla vite che l’accompagnava, disse: “Però se questo tronco se ne stesse lì celibe, senza tralci, non avrebbe nulla di attraente se non le proprie fronde. E anche la vite, che si abbandona abbracciata all’olmo, se non gli fosse unita, per terra giacerebbe afflosciata. Ma a te l’esempio di questa pianta non dice nulla ed eviti l’accoppiamento, non ti curi di congiungerti. Oh, se tu lo volessi! Più numerosi spasimanti dei tuoi non avrebbero afflitto Elena, colei che scatenò la guerra dei Làpiti e la moglie del pavido o, se vuoi, coraggioso Ulisse. E anche ora, ora che fuggi e respingi chi ti vorrebbe, migliaia d’uomini ti bramano e dei, semidei e tutte le divinità che vivono sui monti Albani. Ma se vuoi essere saggia, se vuoi maritarti bene e ascoltare questa vecchia che ti ama più di tutti questi, e più di quanto tu creda, non accettare nozze banali e scegli come compagno di letto Vertumno. Sul suo conto posso garantirti io: lui non si conosce più di quanto lo conosca io. Non vaga qua e là frivolo per il mondo, mondanità niente, e non fa come tanti che s’innamorano d’ogni donna che vedono: tu sarai la sua prima e ultima fiamma e a te sola dedicherà tutta la sua vita. Considera poi che è giovane e da natura ha il dono della bellezza, che ha l’abilità di trasformarsi in ogni aspetto: ordinagli l’impossibile, all’ordine diverrà ciò che vuoi.

E poi non avete gli stessi gusti? Non è il primo a prendersi i frutti che ti stanno a cuore, a stringere lieto in mano i tuoi doni? Ma ora non desidera i frutti spiccati dall’albero o le succose verdure che crescono nel tuo giardino: non desidera che te. Abbi pietà del suo fuoco e ciò che implora, pensa che sia lui stesso per bocca mia a chiederlo. Non temi il castigo degli dei, di Venere che detesta gli animi duri, l’ira di Nèmesi che nulla dimentica? (…) Memore di ciò, ninfa mia cara, tronca, ti prego, la tua cruda ritrosia e unisciti a chi t’ama. E io t’auguro che una gelata primaverile non danneggi i frutti nascenti e che venti impetuosi non strappino i tuoi fiori.” Dopo aver parlato inutilmente come s’addiceva a una vecchia, Vertumno riprese l’aspetto giovanile, abbandonando gli abiti senili, e apparve a Pomona in tutto il suo splendore, come quando il disco del sole, squarciando la coltre delle nubi, senza che nulla l’offuschi, rifulge luminoso. E si apprestava a prenderla con la forza, ma questa non servì: sedotta dalla bellezza del nume, anche lei fu vinta da amore.

(Publio Ovidio Nasone – Metamorfosi, XIV)


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