Posted 12 dicembre 2012 in Balcani Occidentali, J'accuse, Slider with 1 Comment
di Matteo Zola
RUBRICA: J’accuse
Abbiamo più volte sostenuto, sulla scorta della lezione di Rastello e Rumiz, come le guerre jugoslave furono il frutto di un inganno. Un imbroglio etnico. Il conflitto non era ineluttabile. La necessità della guerra non era scritta nel codice genetico balcanico. Non era inevitabile. Facile appellarsi al destino amaro dei Balcani, facile credere alla “polveriera d’Europa”. Ci abbiamo creduto tutti, a un certo momento: è scritto nei libri di scuola. Ce lo dice la televisione, ancora oggi. Ma non è vero. Andiamo con ordine.
Riassunto di un imbroglio
Le guerre jugoslave furono descritte, dalla quasi totalità dei media e da una parte della storiografia, come il frutto della recrudescenza di un odio atavico. Serbi, croati, musulmani, kosovari, si odierebbero da secoli, al punto da volersi annientare. La morte di Tito, e la fine del sua “oppressione protettiva”, avrebbe liberato queste energie mai sopite. Quanto questa lettura dei fatti sia fuorviante si evince anzitutto da alcuni elementi chiave, che qui riassumiamo senza approfondire: lo scandalo Karicbank e lo scandalo Hypo Bank; l’aggressione di serbi da parte di serbi o la difesa di musulmani a Sarajevo da parte del generale serbo Jovan Divjak testimoniano come l’elemento etnico fosse secondario. Sono stati i soldi, la brama di potere, la necessità delle “seconde file” del defunto partito comunista di riciclarsi come nuovi leader “democratici”, a portare la Jugoslavia alla guerra.
Una guerra che si sarebbe potuta evitare (chi si ricorda più di Ante Markovic?) attraverso, magari, un nuovo modello federale e progressive autonomie. Ma erano soluzioni che non servivano a riempire d’oro le fauci dei mastini della guerra. Una guerra che di patriottico ha avuto poco: se pensiamo a come Milosevic dapprima utilizzò e poi abbandonò, in un tacito accordo con Tudjman, i serbi di Krajna cui fu persino impedito di entrare, profughi, in Belgrado. L’evidenza di un’asse tra Zagabria-Belgrado toglie ogni elemento di etnicità al conflitto. Sulla testa di serbi, croati, bosniaci e kosovari si è giocata una partita che ha visto le élites politiche prosperare sulla morte sulla distruzione della popolazione.
Perché non fu guerra etnica (e perché crediamo che lo sia)
Eppure, ed è questo il punto, l’idea che si trattasse di una guerra etnica è stata fatta propria anche dal cosiddetto “occidente” che pure aveva tutti gli elementi per accorgersi dell’inganno. Perché? Fino a trent’anni fa alla parola identità poteva giusto venire in mente la carta di identità. Oggi invece si pensa subito alla “identità etnica”. L’idea di appartenere a identità etniche rigide, ereditate per nascita e immutabili, cui è impossibile interagire con altre, è assai diffusa ed esce dai confini balcanici. Questa vulgata vorrebbe che i membri di una etnia siano storicamente e culturalmente irriducibili rispetto a quelli di un’altra etnia. La cultura, ovvero tutto ciò che non è biologico, viene usata come elemento di separazione non meno di quanto, nel secolo scorso, si faceva con il concetto di razza. Come scrive l’antropologo Marco Aime, “l’idea di razza, ormai impresentabile a livello pubblico, si è rimbiancata con la veste culturale”. Oggi dire ‘etnia’, a livello pubblico e mediatico, equivale nella sostanza a dire ‘razza’. Ogni popolo sarebbe quindi etnicamente e culturalmente chiuso, e la terra su cui abita apparterebbe solo a quel popolo. L’associazione tra elemento biologico e territoriale assume connotati che in etnografia sarebbero definiti “tribalistici”. L’etno-nazionalismo contemporaneo, assumendo a valore il legame tra terra e sangue, sembra dunque essere una regressione anche rispetto al nazionalismo ottocentesco.
Non è forse inutile dire che tutte le culture sono multiculturali, prodotto di continui scambi secolari. E questo è tanto più vero nei Balcani dove la cultura è in fondo la stessa, come lo è la lingua, pur declinata a varianti locali (oggi si assiste al fiorire di neo-lingue, in cui elementi dialettali sono assunti come differenze). Eppure su questa apparente divisione si è costruita una guerra. Una guerra che, abbiamo detto, riteniamo essere un “imbroglio etnico”, ma che da vent’anni è raccontata come l’irriducibile scontro tra etnie. Come l’impossibilità della convivenza. E anche di fronte agli sforzi di chi cerca di sfatare questo mito, è notevole la resistenza dell’opinio communis, e notevole è la violenza verbale, il rifiuto di costruire una memoria condivisa. E, nel nostro piccolo, anche su questo sito la sperimentiamo quotidianamente.
Il concetto di identità etnica rigida appartiene ormai all’Europa tutta, c’è un fiorire di partiti etno-nazionalisti dalla Finlandia alla Spagna. C’è una “invenzione delle radici” locali anche in Italia. Ovunque il concetto di “etnia esclusiva” è diffuso e a uscirne falsata è la rappresentazione dell’altro. Non stupisce quindi che la lettura del conflitto balcanico come ‘scontro etnico’ persuada molti e si moltiplichi, nei Balcani come fuori da essi. Questo atteggiamento politico-culturale ha delle ricadute nell’interpretazione dei fatti storici: la vulgata che vuole i Balcani “geneticamente” destinati alla guerra è una follia. Eppure, abbiamo visto, quella guerra si poteva evitare, è avvenuta ma poteva non avvenire. Non era un ‘destino biologico’.
Ma rompere il pregiudizio etnico è difficile poiché esso si fonda su qualcosa di più pericoloso e profondo della rappresentazione dell’altro. Ovvero sulla rappresentazione di noi stessi: immutabili, predestinati, non commensurabili e quindi in fondo prigionieri di gabbie culturali delle quali, almeno per ora, possediamo ancora la chiave per uscire.