Stadio Francisco Artés Carrasco. Primo turno della Copa del Rey 2014/15. Si affrontano La Hoya Lorca e Villanovense. Una partita come tante altre, due piccole realtà che si affacciano alla prestigiosa coppa nazionale più con illusione che con fiducia, su questi campi di provincia il primo turno eliminatorio vale quanto una semifinale. Nessuno avrebbe mai sospettato che questa partita sarebbe potuta entrare, nel suo piccolo, nella storia del calcio spagnolo.
Da una parte c’è la favola del La Hoya, frazione di Lorca (terza cittadina della regione Murcia), che conta su poco meno di tremilacinquecento anime, ma che dall’anno della sua fondazione, appena undici anni fa, ha insperatamente scalato la piramide del balompié. Grazie al tecnico Leo López, secondo di Unai Emery ai suoi esordi nel Lorca Deportiva, raggiunge la Tercera División (quarta categoria del sistema iberico) nell’estate 2010, e la principale squadra di Lorca è già in declino con gravi problemi finanziari, La Hoya di lì a un anno sarà già il principale punto di riferimento della regione lorquina. Si sposta nello stadio di Lorca, aggiunge il nome della città alla denominazione ufficiale (originariamente fu fondata come La Hoya Deportiva) e il simbolo del castello cittadino allo stemma, e in seguito alla sparizione del club storico ne eredita anche la tradizionale divisa a strisce biancoazzurre. Nel 2013 centra la prima storica promozione in Segunda B, e nella passata stagione al primo colpo raggiunge i play-off, ma deve arrendersi in semifinale. Viene soprannominato “El Brócoli Mecánico”, letteralmente il broccolo meccanico, con chiaro riferimento all’arancia meccanica e all’esaltazione di uno degli ortaggi che caratterizzano l’economia regionale, tanto che molto facilmente potreste trovare una serie di cavoli sul bancone della sala conferenze, durante le interviste pre o post-partita. L’unico precedente di coppa è invece l’eliminazione al primo turno della stagione passata per mano dell’Écija alla lotteria dei rigori.
Dall’altra parte c’è una storia dai contorni più netti, quella del Villanovense, la squadra di Villanueva de la Serena, comune di oltre ventiseimila abitanti nella provincia di Badajoz, in Extremadura, a poco meno di 600 km di distanza. Fondato nel ’92, rilevò l’eredità dell’omonima società scomparsa in quell’anno, da allora vanta sei partecipazioni in Segunda B. Nel 2011/12 ha centrato per la prima volta la salvezza, invece ora, dopo un’altra retrocessione, può riaffacciarsi nella categoria dei professionisti. Loro sono soprannominati i villani, per assonanza col nome della cittadina, e possono decantare ben due partecipazioni nella Copa: la prima nel 2006/07, anche loro contro l’Écija, tra le cui fila all’epoca giocava un certo Nolito (scuola Barçellona, oggi al Celta Vigo), terminata con una eliminazione lampo; e la seconda nel 2011/12 quando raggiunsero il secondo turno eliminando il Melilla, il piccolo club enclave su suolo africano, ma non il San Roque di Lepe.
Stavolta il Villanovense è l’unica rappresentativa regionale a prender parte alla rassegna, e la trasferta a Lorca promette bene, le due squadre sono appaiate a quattro punti in campionato e gli estramaduregni non perdono sul territorio della Murcia da cinque gare consecutive. Si portano in vantaggio dopo pochi minuti grazie a un’incursione di Mato Anxo che penetra fra le linee tagliando il campo da destra a sinistra e incrocia con un mancino chirurgico. Ma il pareggio non tarda ad arrivare, Pau Franch insacca di testa da calcio d’angolo: uno a uno. La svolta arriva allo scadere del primo tempo: il direttore di gara, il valenziano Miguel García Aceña, tira fuori il secondo giallo per José Ángel González, centrocampista centrale degli ospiti, e i padroni di casa possono intraprendere l’assalto nella seconda frazione di gara. Il Villanovense dà i primi segni di cedimento, la squadra ha attraversato la penisola iberica da ovest verso est via pullman, più di 550 km, e l’uomo in meno si fa sentire. Al primo calcio d’angolo della ripresa Pau Franch raddoppia, ma l’arbitro annulla per fallo di mano. La difesa dei villanos tiene fino a un quarto d’ora dalla fine quando il subentrato Joselu sfugge alla marcatura difensiva e riceve un traversone sul secondo palo, aggancia e batte il portiere di esterno: due a uno. Neanche un giro di lancette e arriva la seconda ammonizione anche per José Tapia, terzino sinistro del Villanovense, che adesso si ritrova sotto di una rete e di due uomini. Ma qua inizia un’altra partita.
La leggenda vuole che Villanueva tragga origine dal mito della sirena, eppure in Extremadura di mare non ce n’è proprio. La regione è completamente occupata da catene montuose, ed è divisa dal mare dall’Andalusia a sud e dal Portogallo a ovest. È una regione di profonde contraddizioni: le due province sono Cáceres e Badajoz, ma il capoluogo di regione è Mérida, che non fa provincia; ha dato alla luce molti conquistadores da Francisco Pizarro a Hernán Cortés, che posero fine agli imperi inca e azteca, ma è stata soggetta a continue dominazioni straniere dai romani agli arabi, dai celti ai lusitani, passando per i francesi; non è toccata dal mare ma è la regione spagnola con più chilometri di coste grazie a una fitta rete di fiumi. E proprio sul fondo di questi fiumi la sirena decantata da Antonio Agadez “con il volto della Luna, la carnagione d’alabastro, gli occhi verdi e la mani bianche”, ammaliava i giovani che si abbeveravano sulle sue sponde, i quali se ne innamoravano fino a morire (letteralmente). E così sullo stemma di una cittadina a trecento metri sul livello del mare, da cui dista trecento chilometri appare una sirena. Forse non in molti si sono accorti di quanto della loro storia è stato rievocato da una partita che a tratti è parsa veramente leggendaria. Ma lo capiremo più avanti.
Perché l’incontro ha ancora molto da dire. Troppo. Capitan Pajuelo sbuca dalle retrovie a corregge di testa un traversone dalla sinistra per il pareggio che vale il due a due. Nonostante la doppia inferiorità numerica, nonostante la stanchezza, nonostante le ostilità di milleduecento spettatori che li vorrebbero la vittima designata. Si va ai supplementari, il Villanueva è ancora a galla, ma controcorrente. Il fantasma della sirena villanovense, per chi ancora non l’avesse capito, sembra essersi impossessato del direttore di gara che nel primo tempo addizionale, tira fuori il cartellino giallo altre due volte nel giro di tre minuti, si tratta del decimo e dell’undicesimo cartellino estratto, stavolta sono entrambi per Salvi, un altro centrocampista dei villanos. Appena qualcuno osa perdere la concentrazione lei è lì, in agguato, sul fondo del fiume pronta a mietere vittime tra la sua gente, come una maledizione da cui non ci è mai liberati, come una storia che contraddice se stessa. Undici contro otto. Ma non basta. Assieme a Salvi viene espulso un altro villanovense, Trinidad, stavolta rosso diretto, e allontanato il tecnico Julio Conos. Undici contro sette e ancora venti minuti da giocare. Il terreno di gioco sembra una prateria, gli avversari moltiplicarsi, la tattica un insensato ricordo. Un’altra espulsione e La Hoya si aggiudicherebbe il match a tavolino, in sei non si può giocare. Ma gli estremaduregni si chiudono a riccio e resistono stoicamente fino al 124’, fino ai tiri di rigore.
Comunque vada i serenos hanno dimostrato una forza di volontà epica: un’ora e un quarto in inferiorità, addirittura venti minuti con quattro uomini in meno. Una prestazione che definire probante è voler minimizzare. La maledizione, forse, in qualche modo, è stata infranta e loro non lo hanno capito. Come una donna dispettosa che, stufa dei propri inganni e fiera della tenacia del proprio amante, torna nel momento del bisogno a trarre in salvo il proprio uomo, è durante la lotteria dei rigori che lo spirito della sirena di Villanueva sembra esser tornata in soccorso del proprio popolo. Ormai convinta dalla strenue resistenza dei villanovensi si materializza nel difensore per eccellenza, il portiere Alberto Ratón che neutralizza due tiri dagli undici metri a Sergio Ortiz e Antonio Pino, e ipnotizza Paredes. I serenos alla fine possono esplodere in una ressa di gioia. Alla fine ce l’hanno fatta, il loro sforzo è servito a qualcosa. Una doccia e subito sul pullman per altre sei ore di viaggio verso casa, cantando “acaban de expulsar al conductor del autobús no tenemos como volver”, hanno appena espulso l’autista, non sappiamo come tornare. Per La Hoya non c’è più spazio, questa non è la storia dei vincitori morali, è la storia del Villanovense che almeno per una sera ha avuto il suo momento di gloria.
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