Cap. XI
Lino fu tenuto sotto osservazione. Ma non fu cacciato nel moderno e pulito day ospital, fu invece sbattuto nel reparto psichiatrico. Una volta entrato dentro si accorse che uscire era impossibile. Due infermieri in sovrappeso stazionavano davanti alla porta chiusa con un grosso catenaccio. Lì per lì pensò che doveva trattarsi d’uno scherzo, ma accortosi con che tipi avrebbe avuto a che fare poco mancò che perdesse i sensi.
Non era certo l’aiuto che si era aspettato di ricevere quando il giovane dottore gli aveva promesso di volerlo “tenere al sicuro per un po’ garantendogli un letto e pasti caldi”. Se non era un manicomio poco ci mancava. Il reparto psichiatrico era un lungo budello stretto e soffocato. Uomini distrutti si cavavano gli occhi e si strappavano la lingua a mani nude fumando come can malfussi. Gli bastò una manciata di minuti per cominciare a tossire. Era vietato aprire le finestre e tutti fumavano un pacchetto almeno nel giro di poche ore. Il fumo stagnava nell’aria, e alla fine si attaccava alle pareti che bianche non erano: di un brutto grigio colloso i muri di quel budello puzzavano di tumori andati in putrefazione già da una lunga pezza.
Ma peggio d’ogn’altra cosa era l’umanità che in quel tumore sguazzava. Imbottiti di sedativi c’erano sia uomini che donne, vestiti allo stesso modo, perlopiù scalzi e con bocche di denti marci. Erano fuori di testa, era fuor di dubbio. Ma Lino non era matto. Non lo era mai stato. Lino si costringeva a ripetere come un mantra che lui era sano di testa e che Lei nel suo sermone non poteva avergli mentito.
La situazione era precipitata quando Lino aveva confessato al giovane dottore di “loro”. Lui si era fidato. Ingenuo ch’era stato! Gli aveva mostrato il suo tesoro, l’unica copia che aveva del sermone, convinto che così l’avrebbe convinto che “loro” esistono e che ce l’hanno a morte con gli occidentali e che sono venuti in Europa armati dei grembi delle loro donne per conquistare ogni fazzoletto di terra cristiano. Il dottore gli aveva accordato un po’ di finto interesse rassicurandolo che conosceva quel libro, e morta lì. Da quel momento in poi la sua affabilità si era fatta fredda.
Infine la promessa a cui lui aveva creduto.
Fece presto la sera a calare.
Lino se ne stava accucciato in un angolo a tossire non dimenticandosi di piagnucolare.
Le urla dei matti, il fumo, le sbarre alle finestre l’avevano convinto che era peggio che stare in carcere e che se mai sarebbe uscito da quell’inferno sarebbe stato in orizzontale. Già si vedeva cadavere lungo disteso sù una barella coperta in malo modo da un lenzuolo.
Cercò conforto nel sermone. Non gliel’avevano tolto anche se non riusciva a capire perché.
Con riverenza se lo strinse al petto, lasciando che il pianto diventasse pure il Niagara.
Vedendolo così fragile i pazzi, più curiosi che pericolosi, lo circondarono.
Lino continuava a piangere come una donnetta, senza ritegno.
Si accorse d’essere osservato dopo un minuto buono che i pazzi avevano formato un anello intorno a lui accucciato a terra.
Urlò.
E urlò a lungo.
L’unica risposta che ottenne fu la flebile eco del suo terrore.
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