Cap. XIII
Cercò invano di tirarsi sù, ma la debolezza l’ebbe presto vinta. Non ci provò una seconda volta. Non c’era bisogno che qualcuno glielo dicesse papale papale che poco c’era mancato perché andasse a trovare il Creatore. Scoprirsi vivo non gli fu di nessun conforto. Il petto gli doleva. Se non aveva avuto un infarto doveva esserci andato comunque vicino, così sospettava. Fece per aprire bocca per chiamare un infermiere, ma subito una tosse selvaggia lo lasciò senza fiato: si strappò dunque la maschera per l’ossigeno e scaracchiò muco e sangue in copiosa quantità sulle lenzuola. Senza un alito di fiato, prostrato, persi i sensi.
“Ha la pellaccia dura il tuo amico”, osservò il primario del reparto di rianimazione. “Quando l’hanno portato qui l’avevo dato per spacciato.”
“Non ha parenti”, buttò lì il dottore, mentre si lisciava i capelli folti e neri con una mano, un gesto narcisistico portato con garbo quasi effeminato.
“Ne sei certo? Te l’ha detto lui?”
“Non proprio… L’ho desunto. Ha lasciato il suo paese dopo che i genitori sono morti… E’ un povero cristo senza nessuno al mondo, un rifiuto della società con il cervello in pappa. Tutto qui.”
Il primario sbottò secco: “Non va affatto bene. Non significa che non abbia altri parenti. E’ stata una leggerezza, Gabriele… una dannata leggerezza.”
Gabriele fissò i suoi occhi rabbiosi in quelli del primario che però non distolse lo sguardo. Alla fine il giovane medico abbassò il capo seppur a denti stretti.
“Non ci possiamo permettere uno scandalo, non in questo momento. Non voglio situazioni imbarazzanti, hai capito?”
Gabriele non aprì bocca. Inghiottì l’amaro bolo e a malincuore annuì.