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LA LEBBRA di Iannozzi Giuseppe – Cap. XV

Creato il 13 febbraio 2011 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

Cap. XV

LA LEBBRA di Iannozzi Giuseppe – Cap. XV
Gabriele si chiuse nel suo studio dando precisi ordini alle infermiere di turno di non voler essere disturbato per nessun motivo.
Livido di rabbia non poteva non ammettere d’aver commesso una leggerezza attribuendo poca o nulla importanza al suo paziente; non aveva pensato alla possibilità che potesse avere dei parenti e che se fosse morto qualcuno avrebbe potuto reclamare la salma. Pur riconoscendo lo sbaglio madornale non riusciva però a mandar giù il rimprovero che il vecchio primario Dalla Chiesa gl’aveva mosso in camera caritatis.

I profondi occhi blu di Gabriele s’accesero di malignità mentre da un cassetto tirava fuori il sermone, il tesoro del suo paziente. Strinse il crocifisso della catenina al collo tra pollice e indice, e scoppiò in una risata gutturale. Odiava il Cristo, lo odiava perché non era il Profeta, perché non era Allah, perché non era la verità. Era stato costretto a mescolarsi con i cristiani, a prendere sù di sé i loro sporchi costumi fingendo di condividere le loro offese ad Allah, all’Unico Vero Grande Dio.
Pochissimi sapevano che non era cattolico, Dalla Chiesa e pochi altri fedeli ad Allah. Aveva ricevuto degli ordini precisi. Era stato allevato sin da bambino per entrare tra le fila dei cristiani e crocifiggere gli infedeli con le loro stesse armi. Non aveva avuto una vita facile. Era stato educato e sottomesso perché Allah lo aveva scelto. In Italia i fratelli musulmani lo avevano allevato, gli avevano insegnato a nascondere la sua vera fede senza rinnegarla. Di giorno frequentava le scuole cristiane, di notte ratto come un topo scivolava nei cunicoli della casbah torinese per incontrare i mujaheddin e purgarsi l’anima con le verità del Corano. Il ruolo d’infiltrato per il bene della jihad gli aveva preso tutta la vita. Non nutriva alcun dubbio che Allah avesse visto giusto nel scegliere proprio lui. Era solo dispiaciuto che il ruolo che recitava all’interno dell’ospedale fosse così tanto simile a quello di certe spie tanto bene descritte nei thriller da edicola.

Con rabbia belluina scaraventò il sermone contro la porta dello studio. Quello volò pesante come una pietra e si schiantò contro il legno immacolato della porta. Produsse un fracasso della madonna, manco fosse stato una bomba, ma non si sfaldò. Cadde invece sul pavimento, con la foto dell’autrice rivolta verso l’alto.
Prima che potesse alzarsi per recuperare il tesoro del suo paziente e farlo a pezzi con le sue mani, nello studio fecero irruzione due infermiere allarmate ma più che mai decise ad affrontare qualsiasi nefasta evenienza. Le due donne, tarchiate e piuttosto scimmiesche, diedero un’occhiata intorno convinte di trovare un pazzo furioso al quale somministrare la loro personale ricetta per fargli uscire i diavoli dal corpo, ma non c’era nessuno a parte il dottore. Gabriele, livido di rabbia, spiegò in quattro e quattr’otto che non c’era di che preoccuparsi, che era stato un po’ maldestro nel riordinare la scrivania e che un paio di volumi erano caduti. Le due donne non parevano del tutto convinte. Gabriele fu costretto a licenziarle con la forza quasi.

Non avrebbe dovuto cedere all’ira. Era stato un passo falso, l’ennesimo. Quelle due le conosceva bene. Avrebbero parlato. Tempo cinque minuti e si sarebbe saputo in tutto il reparto che nel suo studio c’era stato il finimondo.

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