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LA LEBBRA di Iannozzi Giuseppe – Cap. XXV

Creato il 30 gennaio 2012 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

La lebbra – di Iannozzi Giuseppe

Cap. XXV

LA LEBBRA di Iannozzi Giuseppe – Cap. XXV
Fu il sole a svegliarlo con il suo primo bacio di luce. Le ossa un poco dolenti, ma tutto sommato non si sentiva poi male. Era stata una nottata tranquilla, più di quanto avesse osato immaginare; il pagliericcio gl’era stato letto e coperta. Ovvio, ora puzzava come un caprone, e però non gli dispiaceva.
Era stata una vera fortuna trovare quella cascina abbandonata, non occupata da tossici o da personaggi un po’ così e così. Vecchia e cadente, con un tetto di tegole balorde lì lì per cadere, la cascina si era rivelata un buon riparo, che, tempo permettendo, avrebbe potuto fargli da ricovero ancora per un po’. Aveva già pensato d’andar presto al mercato e recuperare una coperta a poco prezzo, e forse anche una pentolaccia. A ben vedere, or come ora, non aveva bisogno d’altro: duecento euro non gli assicuravano granché, a dire il vero proprio niente, per cui meglio era tenerli in saccoccia per le vacche magre che paventava non si sarebbero fatte aspettare.

Tra i tanti pensieri che gli picconavano la fronte, quello più ostinato era di ritrovare lei, lei così tanto diversa da lui, povero disperato alla deriva, rabbioso e confuso. Ciò non ostante lei aveva fatto in fretta a diventare la sua ossessione, relegando il sermone della Fallaci nella tasca posteriore dei pantaloni; e pensare che c’era stato un tempo in cui non poteva far a meno di guardare al sermone come a un’àncora affondata in un porto sicuro. Tempi lontani. Tanto lontani gli parevano adesso. Se il sermone aveva significato per lui qualcosa, oggi nutriva paura e repulsione per la Fallaci, che, per così dire, gli penetrava il sedere. Non osava tirarlo fuori quel dannato. Perché? La paura immediata era che se lo avesse ripreso in mano il pensiero fallace avrebbe potuto ricondurlo sulla vecchia strada. E Lino era stanco, davvero troppo stanco, per tornare a odiare senza un perché illudendosi che un ‘perché’ vero e serio esistesse.

Quelle che per tanto tempo erano state le sue fallaci àncore di salvezza, di punto in bianco, erano diventate inservibili. Doveva disfarsi del sermone. Prima o poi avrebbe dovuto cestinarlo e non pensarci più. E però…

Portò lo sguardo d’attorno se non con pieno ottimismo, con una scintilla d’indefinita felicità nell’animo. Come tutti gli uomini innamorati cominciò a domandarsi se Aidha l’amasse, o se il palpitare che sentiva fargli baccano in petto fosse solo il frutto d’un’illusione, dell’estremo bisogno di non vivere più la propria vita in compagnia della signora solitudine. Non sapeva dove andare a sbattere la testa: Aidha era scomparsa e ritrovarla sarebbe stata un’impresa, forse impossibile. Più pensava a lei e più si rendeva conto che ritrovare la ragazza avrebbe messo in moto forze avverse, un destino che anche volendo non avrebbe potuto controllare a suo favore.

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