LA LEBBRA di Iannozzi Giuseppe
Cap. XXX
“Non ti ricordi più di me? Non sono un jinn…”, e così dicendo l’uomo scoppiò a ridere carezzandosi la faccia sporca di barba nera. “Le cose non sono quasi mai come sembrano”, sentenziò Gabriele: “Sono proprio io, sì, e se te lo stessi chiedendo, sì, sono un figlio di Allah…”.
Lino fece per aprir bocca, ma non un fiato: sentì forte una fitta di dolore nascergli dal petto per subito irradiarsi lungo il collo e la testa. Avrebbe voluto squarciare il cielo sopra di sé con un urlo, con tutta la disperata confusione che, in un niente, come demone stupratore, s’era incollata alla sua anima.
“Ti vedo…”, disse Gabriele schioccando la lingua in bocca: “Vedo come sei messo, un cane bastonato. Non capisci? Allora lascia che ti spieghi una o due cose che avresti dovuto intuire da te se solo non fossi così tanto ottuso…”.
Lino cercava invano aiuto girando la testa, ora a destra ora a sinistra, inconsapevole di prestare agl’occhi dei freak uno spettacolo per loro assai divertente, quello d’una marionetta cui siano stati strappati i fili.
Tutto goduto Gabriele, o chiunque esso fosse in realtà, se la rideva per nulla preoccupato di celare la malignità che lo vestiva da capo a piedi: “Dunque, da dove cominciare per farti capire? Mi conosci come Gabriele, come quel dottore che ti ha raccolto quand’eri fuso di testa, anche se ora, a guardarti bene, non è che tu sia un poco più brillante; ad esser sincero ho netta la sensazione che il tuo stato psicofisico sia collassato di brutto, ma non me ne frega una sega, non sono qui nelle vesti del buon samaritano. Per quel che mi riguarda puoi impazzire in questo stesso momento… Ma prima voglio che tu sappia qualcosa, lo stretto necessario, nulla di più”.
Paralizzato Lino rimase ad ascoltarlo.
“Una volta in Italia i fratelli musulmani mi hanno allevato, mi hanno insegnato a nascondere la mia vera fede senza però mai rinnegarla. Alla luce del sole ho frequentato le vostre scuole cristiane; di notte invece, ratto come un topo, ho imparato a intrallazzare nei cunicoli della casbah torinese per incontrare i mujaheddin e purgarmi così l’anima con le verità del Corano. Il mio ruolo è stato deciso alla mia nascita. Allah mi ha scelto, ha scelto me per ricoprire il ruolo dell’infiltrato, per il bene della jihad. Sono stato introdotto in ospedale facendomi passare per un dottore del day hospital… Non è stato difficile, non quando si hanno le conoscenze giuste nei posti giusti. Ti starai domandando perché, ma questo non posso dirtelo, non ora in ogni caso… Dovrai pazientare, vecchio mio. Ma ecco che torna Kuskusu. Prova un po’ a indovinare chi lo accompagna! Sì, proprio lei, Aidha”.
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