La legge dell’attrazione (prima parte)

Creato il 16 luglio 2013 da Straker
La cosiddetta “legge dell’attrazione” implica che ciascuno di noi attira gli eventi che costellano la sua vita. In modo inconscio si trascinerebbero verso di sé situazioni favorevoli o dannose, provocando poi una sorta di “effetto domino”. E’ ovvio che tale idea investe dei problemi filosofici di formidabile complessità. Cercheremo, però, di analizzarla, per quanto possibile in modo semplice. La divisione della disamina in parti piuttosto brevi dovrebbe agevolare la comprensione.
In primo luogo osserviamo che la succitata “legge” presuppone che A (il soggetto) intervenga in qualche modo su B (gli accadimenti). E’ significativo che tale intervento non sia sugli oggetti, sulla materia, ma appunto sugli avvenimenti: siamo nell’ambito di una visione che manifesta, in una sua sfaccettatura, una vaga somiglianza con il pensiero del primo Wittgenstein. Secondo il filosofo austriaco, infatti, il mondo è la totalità dei fatti (“Il mondo è ciò che accade”, "Tractatus logico-philosophicus"), una concatenazione di stati di cose in connessioni immediate, di fatti che succedono uno indipendentemente dall’altro.
Purtroppo, come spesso avviene con le idee che bollono nel pentolone della New age, il presupposto indicato è sùbito confuso con un altro assunto: il pensiero ha la possibilità di creare. Si propone il seguente esempio: esisterebbe un capolavoro, prescindendo dall’idea di un artista? Ovviamente no. Proviamo ad immaginare i meravigliosi affreschi della Cappella Sistina, assente l’ispirazione di Michelangelo. È naturale che senza la potente fantasia del genio, senza il suo disegno intellettuale, le pareti della Sistina non sarebbero abbellite dall’eccelsa opera. Ci si chiede, però, se potremmo ammirare il masterpiece, se Michelangelo non avesse potuto usare i pigmenti dei colori, i pennelli e la sua stessa mano? Ora, si può prescindere dalla materia, se si intende dare vita a qualcosa? [1]
E’ evidente che l’affermazione “l’idea crea” è una colossale, spaventosa sciocchezza, se non la integriamo nel modo seguente: “L’idea crea, ma con la mediazione della materia o comunque di un quid che rende percepibile il concetto”. Diversamente si resta irretiti nelle istruttive contraddizioni e nei fallimenti dell’arte concettuale (si pensi soprattutto a Joseph Kosuth) che tenta di concettualizzare l’espressione estetica, di sbarazzarsi della “cosa”, senza mai riuscirvi del tutto. La “cosa” (il substrato del significante o il riferimento al significato), espulsa dalla porta, rientra dalla finestra ora come supporto cartaceo di una fotografia ora come manufatto (la sedia di “Una e tre sedie”). Dell’impossibilità di annullare l’oggetto, è consapevole Marcel Duchamp che, quando decide di azzerare la “cosa”, rinuncia in toto all’arte per dedicarsi al gioco degli scacchi.
In altre parole, l’idea sorgerà pure dal nulla, ma senza il concorso di qualcosa (la si chiami materia, oggetto, entità fisica, elemento corporeo etc.), comunque si intenda quel “qualcosa”, anche l’idea più sublime coinciderà con il nulla.
Sfido chicchessia a produrre un testo lato sensu, senza ricorrere ad alcunché di materiale ed esterno: una penna, la tastiera di un computer, una tavolozza con le tempere, il marmo, uno strumento musicale...
[1] Qui non indugiamo su che cosa sia veramente la materia, perché è argomento cui abbiamo già dedicato molti articoli cui rinviamo. Si legga almeno “Che cos’è la ‘cosa’?”, 2010. Si può rammentare che gli scienziati la giudicano equivalente all’energia, secondo la formula di Olinto De Pretto (poi plagiata e modificata da Einstein), E=mv2, ossia l’energia è uguale alla massa per la velocità della luce al quadrato. In verità, nessuno ha mai davvero compreso che cosa sia non solo la res cogitans ma pure la res extensa. Ci si deve accontentare di ipotesi, di teorie, giacché l’essenza del reale è in sé inconoscibile.

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