La forza de La leggenda del grande Inquisitore è il mood generato, ma si ferma lì, ad una suggestione che non attecchisce. Suscita qualche brivido, ma non emozioni.
L’idea registica de La leggenda del grande Inquisitore è forte: Pietro Babina rinchiude il protagonista (Umberto Orsini) e il suo tormento (Leonardo Capuano) in un ambiente angusto e soffocante, una specie di cantina, tra il bunker e la gattabuia. Il suono di una radio va e viene, fuori si sente più volte la sirena della polizia. E poi c’è una parola, sospesa là in alto: “Fede”. L’insegna lampeggia, intermittente, epilettica; anche la luce, come la radio, va e viene.
Una situazione inquietante dove Orsini è come un animale in gabbia, come Gregor de Le metamorfosi di Kafka sbatte contro le pareti, inquieto, tormentato, come un insetto che gravita sotto quella “dannata” luce accesa. Un’atmosfera kafkiana, dunque. Troppo kafkiana. Ed è quel troppo che non convince lo spettatore, il quale, pur ipnotizzato e angosciato dai movimenti dei personaggi, non capisce da che parte vuole andare a parare il regista. E non aiuta, anzi forse addirittura stona, l’inserimento finale di una confessione ad un’ipotetica Ted Conference dove Orsini cerca un Cristo seduto in platea che però rimane silente, forse perché assente.
La forza de La leggenda del grande Inquisitore è il mood generato, ma si ferma lì, ad una suggestione che non attecchisce. Suscita qualche brivido, ma non emozioni. Il risultato è un tono sperimentale che rimane congelato, glaciale, sterile. Peccato…