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La lettera rubata di Edgar Allan Poe

Creato il 08 ottobre 2010 da Bruno Corino @CorinoBruno

La lettera rubata di Edgar Allan Poe
Questo famoso racconto di Poe ha avuto in passato un celebre esegeta: Jacques Lacan, il quale ha illustrato, attraverso questo racconto, come i significati non siano che variazioni individuali il cui dispositivo è dato dall’ordine del “Significante”: lo spostamento della lettera, che passa di mano in mano, determina l’ordine simbolico. Lo spostamento della lettera, secondo la chiave di lettura lacaniana, determina i soggetti, i loro atti e i loro destini e nessuno è in grado di sottrarsi a questa legge. Ebbene, credo che nessuna interpretazione sia stata così “fuorviante”. Ciò che l’interpretazione lacaniana non ha colto ne’ La lettera rubata è proprio il suo intrinseco “significato” letterale. Il possesso della lettera, che passa di mano in mano, in realtà “sposta” i rapporti di potere tra i soggetti. Non è la lettera in sé ad assegnare le rispettive posizioni ai protagonisti, ma il suo possesso. Un altro aspetto da mettere in rilievo è il modo in cui i personaggi del racconto s’appropriano della lettera e, quindi, le dinamiche interattive che questa appropriazione mette in atto. Finché la lettera compromettente è nelle mani della regina, essa è un oggetto “inerte”; quando il ministro, grazie alla sua prontezza di riflessi mette in atto un piano «ingegnoso» e «ardito» per sottrarla alla regina, i rapporti di forza tra i due soggetti cambiano: ora il ministro, grazie al possesso della lettera, può costantemente minacciare la regina di rivelarne il contenuto al re. L’oggetto acquista un valore all’interno delle interazioni tra i tre personaggi: prima che entrasse il re, era un oggetto “neutro” nelle mani della regina. Quando passa nelle mani del ministro, l’oggetto si carica di altri significati: il ministro lo valuta per i vantaggi che il suo possesso può offrire; la regina per gli effetti dannosi che può subire. Dunque, sono i significati che i soggetti attribuiscono all’oggetto che fa assumere ad esso un valore.

Anche il modo in cui il ministro s’appropria della lettera è interessante: esso si presenta come una vera e propria estorsione, perché è compiuto sotto la pressione di una minaccia, cioè il re – che è a fianco della regina – viene usato, naturalmente a sua insaputa, come un’arma puntata alla tempia della regina: se lei fiata mentre sta rubando la lettera l’arma esplode. La regina deve sottostare al ricatto della minaccia e lasciare che il ministro s’appropri del documento. Il ministro ha previsto che la regina userà tutti i mezzi per riappropriarsi della lettera, e sa anche che, se non sarà lei ad agire in prima persona, qualcun altro lo farà al suo posto. Si tratta soltanto di saper anticipare le mosse di colui che sarà messo sulle tracce del documento. Il compito di recuperare la lettera è estremamente delicato; la regina deve rivolgersi a un uomo in cui ha piena fiducia e che sa mantenere il segreto della missione: recuperare la lettera è rischioso, chi agisce deve agire all’insaputa del ministro. Come racconta il prefetto, il derubato «spinto, infine, dalla disperazione, ha commesso a me il compito di recuperarla»: la regina ha piena fiducia nelle capacità investigative della polizia. Dupin condivide questo giudizio, tuttavia sia la polizia che la regina non hanno tenuto conto del fatto che il ministro non è un ladro comune. Egli s’espone al massimo rischio nel momento in cui, anziché nascondere la lettera, decide di metterla in evidenza, di esibirla quasi: il prefetto «non ha mai creduto probabile che il ministro avesse deposta la sua lettera sotto il naso di tutti, nel solo intento d’impedire a un individuo qualunque di scorgerla». Soltanto il caso, o la combinazione fortuita delle circostanze, avrebbe potuto portare qualcuno a scorgere la lettera. Essa non sta nel raggio d’azione in cui la polizia la cerca; quindi, la ricerca della lettera non dipende da ciò che i metodi investigativi mettono in atto.

Come spiegherà più tardi al suo amico-narratore, la fallacia del prefetto è consistita nell’aver sottovaluto il suo avversario e nell’averlo considerato alla stregua di un volgare malfattore, ciò che è mancato al funzionario è la capacità di identificazione con il ministro: il prefetto nel corso della ricerca ha utilizzato degli schemi operativi collaudati. Se il ministro si fosse comportato come un ladro ingegnoso che vuole nascondere la sua preziosa refurtiva, la polizia, dopo un lungo e meticoloso lavoro di ricerca, avrebbe finito con scovarla: «Se la lettera fosse stata nascosta nel raggio della loro investigazione, essi l’avrebbero certamente trovata. Su ciò non ho dubbi», dice Dupin. I metodi della polizia sono efficacissimi e difficilmente falliscono nel compito. Finché si tratta di mettere alla prova la sagacia della polizia, essa non conosce rivali: «Se il prefetto e tutta la sua banda si sono ripetutamente ingannati, l’errore va cercato in quella identificazione che hanno omessa di tentare, e, in secondo luogo, nella valutazione inesatta, o meglio nella non-valutazione della intelligenza con la quale stavano misurandosi. Essi non vedono al di là dei propri ingegnosi ritrovati. […] Essi non modificano affatto i loro sistemi di investigazione: tutt’al più, quando sono spronati da un qualche caso insolito, ovvero, più esattamente, da un’insolita ricompensa, essi esagerano e portano all’esasperazione i loro vecchi espedienti». In altri termini, il prefetto non ha considerato che il ministro conoscesse perfettamente i «sistemi di investigazione» della polizia, e che mai avrebbe nascosto la lettera nel luogo in cui loro s’aspettavano che fosse. Infatti, dopo aver trascorso «tre lunghi mesi», il prefetto, nonostante avesse fatto setacciare ogni centimetro della casa del ministro, non era ancora riuscito a recuperarla. Nel momento in cui il prefetto si risolse a farsi “consigliare” da Dupin, implicitamente ammette che il ministro lo ha beffato.

La sfida con il ministro, ingaggiata per conto della regina, rappresenta una minaccia anche per l’immagine del prefetto e dell’intero corpo investigativo: più il tempo passa e più la regina perde fiducia nelle capacità del prefetto, più perde credito e più la sua reputazione s’offusca. Tanto più, come spiega il prefetto, il ministro sta facendo un «debito uso del potere acquisito», fino a un limite «altamente pericoloso». Tuttavia, anche il ministro ha commesso un errore di valutazione: non ha mai preso in considerazione che il prefetto potesse un giorno rivolgersi ad Auguste Dupin. Il ministro, come ricorda l’investigatore al suo amico, una volta, a Vienna, gli ha giocato un brutto tiro, «ed io, gli dissi, in quell’occasione, e in tono tutt’altro che di scherzo, che me ne sarei ricordato». Quando un giorno Dupin gli fa visita con quegli occhiali verdi, «con l’aria di capitarvi per puro caso», il ministro non sospetta affatto la vera ragione di quella visita: «Egli girandolava per le sue stanze, sbadigliando e gingillandosi con mille schiocchi argomenti e protestandosi oppresso da una noia mortale». Dietro la sua aria bonaria e annoiata, il ministro rivela nei confronti del visitatore l’atteggiamento di colui che si crede intellettualmente superiore, e che non ha nulla da temere da quella visita. In sostanza, il ministro sta commettendo nei confronti di Dupin lo stesso errore di valutazione che il prefetto ha commesso nei suoi riguardi: se in fondo egli avesse preso sul serio la minaccia di Vienna, ora di fronte a quella visita inaspettata il ministro sarebbe stato in guardia e quanto meno più sospettoso sulla vera ragione di quella visita. La beffa che Dupin gli gioca, quando gli sottrae la lettera, sostituendola con una lettera contraffatta, è una vendetta raffinata concepita dalla sua mente: «Al momento in cui, sfidato da quella che il nostro prefetto chiama una certa persona, egli sarà costretto ad aprire la lettera che io ho lasciato, per lui, nel suo portacarte».

Se la lettera gli fosse stata semplicemente sottratta, il suo ascendente sarebbe cessato, ma la sua precipitazione agli Inferi sarebbe stata lenta e magari grazie alle sua astuzia si sarebbe persino potuto salvare. Se, invece, egli continuerà a credere di esserne in possesso sino al momento in cui, sfidato «da una certa persona», dovrà farne uso, egli si troverà in mano un’arma spuntata, e la sua rovina sarà precipitosa. Ma affinché il ministro non abbia dubbi su chi sia l’autore di questa beffa, e non pensi che sia opera del prefetto di polizia, Dupin gli lascia scritto, in modo che riconosca la sua calligrafia, «proprio in mezzo alla candida pagina questi versi: Un desein si funeste/s’il n’est digne d’Atreé, est digne de Thyeste».


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