La lezione di Moro e quella di Scalfari

Creato il 25 ottobre 2011 da Zamax

Nel suo ultimo articolo su Repubblica Eugenio Scalfari racconta di un colloquio avuto con Aldo Moro il 18 febbraio 1978, quindi poco prima che quest’ultimo fosse rapito ed ucciso dalle Brigate Rosse. In quell’occasione il presidente della Democrazia Cristiana avrebbe detto:

Molti si chiedono nel mio partito e fuori di esso se sia necessario un accordo con i comunisti. Quando si esaminano i comportamenti altrui bisogna domandarsi anzitutto quale è l’interesse che li motiva. Se l’interesse egoistico c’è, quella è la garanzia migliore di sincerità. E qual è l’interesse egoistico della Dc a non essere più il pilastro essenziale di sostegno della democrazia italiana? Io lo vedo con chiarezza: se continua così, questa società si sfascerà, le tensioni sociali non risolte politicamente prendono la strada della rivolta anarchica e della disgregazione. Se questo avviene noi continueremo a governare da soli, ma governeremo lo sfascio del Paese e affonderemo con esso. Noi non siamo in grado di “tenere” da soli un Paese in queste condizioni. Occorre una grande solidarietà nazionale. So che Berlinguer pensa e dice che in questa fase della vita italiana è impossibile che una delle maggiori forze politiche stia all’opposizione. Su questo punto il mio e il suo pensiero sono assolutamente identici. Dopo la fase dell’emergenza si aprirà quella dell’alternanza e la Dc sarà liberata dalla necessità di governare a tutti i costi.

Io non credo affatto che queste fossero le esatte parole di Moro. Può darsi che rispecchino in parte il suo pensiero. Ma così schiette e ben allineate al pensiero scalfariano sembrano piuttosto le parole di un prigioniero che la Sindrome di Stoccolma ha ridotto al punto tale da servire da ventriloquo a chi lo tiranneggia. Inoltre esse in realtà costituiscono un mosaico di frasi estrapolate dalla lunga intervista che Repubblica pubblicò solo il 14 ottobre 1978, ossia cinque mesi dopo la morte di Moro, quando il presidente DC non poteva né smentire né confermare. Ed inoltre ancora, da quella intervista è chiaro come per Moro la necessità della “solidarietà nazionale” nascesse più dalle insufficienze democratiche del PCI che dai demeriti della DC: il PCI era un partito che le forze di maggioranza dovevano “adottare” per sottoporlo ad un tirocinio democratico, alla fine del quale a presidiare la sinistra italiana sarebbe stato un partito “costituzionale”; dopodiché, compatibilmente con la situazione internazionale (eravamo ancora al tempo della guerra fredda), anche in Italia avremmo potuto avere, finalmente, un quadro politico normale nel quale l’alternanza politica alla guida del governo sarebbe stata libera da ogni aspetto traumatico. L’anomalia comunista poteva portare invece il paese al disastro, e i governanti da questo disastro sarebbero stati inghiottiti: ecco dunque l’interesse “egoistico” della DC a far sì che si formasse in Italia un’opposizione, diremmo oggi, “non antagonista”. Era una specie di disegno giolittiano applicato ai comunisti di fine secolo e non più ai socialisti d’inizio secolo. Ma, per altri versi, anche così scalfarianamente confezionato è un discorsetto illuminante, perché fa vedere a coloro che intonando le fruste litanie antiberlusconiane s’immaginano di dare voce alla dissidenza democratica in Italia, come il nostro paese, Berlusconi o non Berlusconi, sia sempre sull’orlo dello sfascio, che chi governa – e non è di sinistra – sia sempre posto davanti ad una scelta responsabile quanto obbligata, che è quella di non ignorare il malcontento, di non esercitare “unilateralmente” il proprio legittimo potere, pena la radicalizzazione dello scontro e la disgregazione del paese. Scalfari lo tira fuori per applicarlo alla situazione attuale, ma così facendo così contraddice uno dei dogmi capricciosi della propaganda progressista: la pretesa “anomalia” berlusconiana. E dimostra invece come la costante anomalia della nostra vita politica, ivi compreso l’immancabile appello alla parte “migliore e più consapevole” della classe politica a destra del partitone di sinistra, stia in una certa visione distorta, pervicacemente coltivata, della nostra storia neanche più tanto recente. La verità è che non usciremo mai dalla vera emergenza, che non arriveremo mai non tanto a quella baggianata insulsa della “democrazia compiuta”, ma piuttosto ad una prosaica normalità occidentale, fino a quando a sinistra la lotta politica si farà tirando il sasso e nascondendo la mano, nel modo già descritto due anni fa dal sottoscritto:

… se una guerra civile scoppia non è certo a causa della mancanza di bon ton o dell’innalzamento dei toni. Quello è solo il fuoco accidentale che fa esplodere la polveriera che qualcuno ha ammassato con solerzia e sistematicità, spesso nel rispetto formale delle regole, nei seminterrati della società. In Italia ciò è avvenuto attraverso la sedimentazione di un’epica politica di massa che ha trasformato i più di sessant’anni della nostra storia democratica e repubblicana in un lungo romanzo criminale, coi furfanti sempre accampati dalla stessa parte. (…) Qualche giorno fa Di Pietro, con l’evocazione maramaldesca di scontri nelle piazze a causa della sordità del governo per “le richieste dei cittadini”, non ha fatto altro che replicare la doppiezza del vecchio PCI, specie all’epoca degli anni di piombo, quando ammassava dinamite in cantina attraverso la sua propaganda, per poi salire al piano nobile del condominio democratico ad ammonire con stile mafioso gli amministratori a comportarsi “coscienziosamente”, perché qualche pazzo esasperato avrebbe potuto far saltare tutto.

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