Nei giorni scorsi la United States Commission on International Religious Freedom ha pubblicato il suo rapporto annuale sulla libertà di religione nel mondo, declassando la Turchia a “country of particular concern” (il livello più basso previsto, insieme a Iran, Sudan, Arabia Saudita e ad altri stati dittatoriali). La collega kemal-leghista, ovviamente, non si è lasciata sfuggire l’occasione per mettere in cattiva luce la Turchia; altrettanto ovviamente si è dimenticata di spiegare che questa commissione ha potere solo consultivo, che il rapporto è stato adottato a maggioranza – 5 a favore, 4 contro – e che ancor prima della sua pubblicazione uno dei 5 a favore ha cambiato idea, che ciò che fa testo è in ogni caso il rapporto del Dipartimento di Stato (quello del 2011 – e Hillary Clinton in persona – hanno elogiato i grandi passi in avanti della Turchia).
Chi si occupa professionalmente di Turchia (ma non ha pregiudizi anti-islamici) non può che definire questo rapporto “una barzelletta”. “While some view the AKP as a moderate party that espouses Islamic religious values within a modern, democratic society, others contend that it has more radical intentions, such as the eventual introduction of Islamic law in Turkey.” Ma visto che l’Akp è al potere da dieci, anni cosa aspetta a introdurre questa fantomatica “legge islamica”? Che poi, le restrizioni alla libertà religiosa in Turchia esistono da sempre e sono la conseguenza dell’ideologia laicista connaturata alla repubblica stessa: ma negli utlimi anni la situazione è sensibilmente migliorata (anche se molto resta da fare), di certo non è peggiorata. E mettere nella stessa categoria la Turchia e l’Arabia saudita è un oltraggio non solo al governo turco, ma anche ai fatti e al buon senso.