Gli amanti del cinema “pulp” hanno imparato ad amare le pellicole di Robert Rodriguez per la disinvolta e sicura capacità di riutilizzare l’iconografia e gli stilemi del cinema cosiddetto di exploitation. Anche il suo ultimo film, Machete (2010) codiretto con Ethan Maniquis, si inserisce pienamente all’interno della sua produzione precedente, riproponendo la consueta sequela di sbudellamenti, sparatorie, ammiccanti sexy-eroine e tutto l’armamentario previsto dal genere di appartenenza. La totale adesione ad un segmento considerato minore ha, tuttavia, forse offuscato il contenuto altamente politico del film, a torto ritenuto un semplice accidente narrativo. Si potrebbe sostenere, con qualche ragionevolezza, che la finalità politica fosse ben presente nella volontà del regista in considerazione della sua origine, essendo nato in Texas da una modesta famiglia di origine messicana, ma questo non è determinante in quanto i film, una volta girati, appartengono alla collettività non meno che al loro autore.
La trama del film espone con chiarezza l’intreccio torbido che esiste tra le classi reazionarie statunitensi e le lobby affaristico-mafiose messicane che utilizzano la politica e i media come strumento di dominio e condizionamento sociale. Questo assunto viene sviscerato, o forse dovremmo dire sbudellato in questo caso, in maniera dettagliata. Si evidenzia il fatto che il cosiddetto Muro della Vergogna che separa il Messico dagli USA altro non è che uno strumento che rende più lucroso il traffico di esseri umani e che si rivela assai debole nel reale contrasto all’immigrazione illegale.
Il film espone con chiarezza che l’afflusso di ingenti quantità di manodopera clandestina è assai apprezzato e fattivamente favorito dalle classi statunitensi che detengono il potere economico in quanto rappresenta un serbatoio di forza lavoro pronto ad offrirsi sottocosto. Viene mostrato come il sistema della comunicazione riesce a saldare gli interessi delle lobby economiche con l’esigenza di consenso della politica attraverso la costruzione del senso di insicurezza generato dalla presenza degli immigrati. Attraverso questa mistificazione politico-mediatica si riesce ad ottenere il massimo di manodopera clandestina proprio dichiarando di volerla combattere: un capolavoro di cinismo e abilità che ha trovato in Italia interpreti non meno abili dei protagonisti di Machete (il ruolo di Robert De Niro, fatta la tara cinematografica, è un’interessante ricostruzione di quel che può essere la prassi di molti nostri politici).
Tanta lucidità di analisi mostrata da questa sceneggiatura, scritta dallo stesso regista con Alvaro Rodriguez, non sarebbe ancora, di per sé, sufficiente a far esprimere stupore in quanto, tutto sommato, dovrebbe apparire piuttosto scontata ad ogni persona di buon senso, se non fosse per due piccoli dettagli: così scontata non appare a moltissima gente (forse per un generale deperimento del buon senso) e neppure ai nostri politici di sinistra (o comunque non danno segno di averla acquisita).
L’analisi politica della sinistra italiana sul tema dell’immigrazione è, infatti, terrificantemente deficitaria. Oscilla dalle posizioni del PD che inclina ad assecondare “moderatamente” le derive terroristiche della destra, che alimentano ansie e paure dei cittadini verso l’Altro, alle vacue posizioni buonistiche (di provenienza cattolica) della sinistra cosiddetta radicale che propugna un’insostenibile teoria dell’accoglienza illimitata e incontrollata che finirebbe per assecondare proprio gli interessi delle classi affaristiche che bramano di speculare sulla sovrabbondanza di manodopera. Questa sede non è il luogo preposto a fornire la soluzione al tema dell’immigrazione, eppure è banale: un eventuale prossimo sequel di Machete potrebbe fornirla senza nessuna difficoltà. Buona visione.
Pasquale D’Aiello