È nata in Inghilterra da genitori bengalesi e ha la nazionalità americana: Jhumpa Lahiri, quindi, ha sempre scritto in inglese. La sua ultima opera, però, si intitola «In altre parole» ed è uscita in italiano come versione originale presso l’editore Guanda. Una scelta apparentemente stravagante, diciamo pure sorprendente, tanto che la spiegazione orienta la trama del testo, raccontandoci un avvincente percorso di passione culturale. Sono pagine meravigliose di cui consiglio caldamente la lettura che, particolarmente per noi, può rivelarsi non solo piacevole ma addirittura istruttiva.
Tra le moltissime citazioni che potrei togliere dal libro, ne scelgo una in cui è possibile trovare un significativo controcanto spiazzante e liberatorio all’ossessione identitaria della quale soffriamo dalle nostre parti: «Chi non appartiene a nessun posto specifico — afferma Lahiri riflettendo sulla sua condizione di scrittrice in costante movimento tra le sue tre lingue di riferimento — non può tornare, in realtà, da nessuna parte. I concetti di esilio e di ritorno implicano un punto di origine, una patria. Senza una patria e senza una vera lingua madre, io vago per il mondo, anche dalla mia scrivania. Alla fine mi accorgo che non è stato un vero esilio, tutt’altro. Sono esiliata perfino dalla definizione di esilio».
In tale profonda riflessione della scrittrice, la svolta è costituita dalla sensazione di un esilio dalla definizione di esilio, alludendo dunque alla consapevolezza che una patria stabile, priva di «trafitture dolorose», produrrebbe anche una stasi perniciosa. Lahiri ha perciò scelto l’italiano come punto di fuga in grado di equilibrare la tensione irrisolta tra la lingua madre, il bengalese, e quella matrigna, l’inglese. Una gestazione complessa, dalla quale l’italiano — tenera e incerta «lingua figlia», scaturisce a fatica per dare forma a una creatività nuova, sovvertitrice degli automatismi espressivi nei quali era rimasta imbrigliata la sua vita precedente.
Trasponendo l’esperienza raccontata da Lahiri in Sudtirolo, terra segnata in modo costitutivo dalla dialettica paralizzante tra lingue madri e lingue matrigne, verrebbe quasi da pensare che i nostri problemi siano acuiti dalla mancanza di una «lingua figlia» da generare e accudire come occasione per una nuova nascita. Solo un caso fortunato, non replicabile a livello collettivo, può dunque spezzare l’incantesimo? Probabile. In ogni caso il libro di Jhumpa Lahiri propone un’analisi che favorisce una riflessione proficua.
Corriere del Trentino e Corriere dell’Alto Adige, 14 aprile 2015 (Pubblicato col titolo: Esiliati dall’esilio)