La materia scura di Orazio Labbate. Orazio Labbate, Lo Scuru, Latina, Tunué edizioni, 2014, pp. 120, € 9,90
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di Primo De Vecchis
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Pare che una delle attività più prolifiche del nemico dell’umanità che chiamiamo il diavolo sia quella di far credere alla maggior parte delle persone (razionali!) che egli stesso non esiste, che si tratta invero di una invenzione grottesca della religio, anzi della superstitio. Dunque ben venga un libro, nella fattispecie un romanzo, che ci dice chiaramente non solo che il diavolo esiste, ma che è in piena attività, senza che le future anime (dannate) ne abbiano contezza.
Il romanzo in questione è Lo Scuru di Orazio Labbate e credo che le visioni sciamaniche del giovane autore debbano essere prese molto sul serio, pur trattandosi di una allucinazione della realtà. Poiché l’autore, dotato di una inconsapevole terza vista, non solo ha visto il diavulu, ma anche il mezzo impalpabile attraverso il quale opera, ovvero lo “Scuru” (oscurità, darkness, nei testi sacri in sanscrito viene detto tamas), e persino il suo figlio incarnato, che non è ancora l’anticristo, bensì una sorta di feticcio inquietante, il Signore dei Puci. Questi in verità dovrebbe raffigurare il Cristo morto, ma nella fabula assume le sembianze di una creatura degna di un film di Mario Bava; pare quasi una Santa Muerte messicana: “invece vitti un mostro con i capiddi rossi infernali e la fàcci dello scheletro e in testa con le spine e gli scavi della facci come un teschio di bue della campagna di Gela” (p. 22). Ecco spiegata quindi la presenza asfissiante della magia (nera o bianca fa lo stesso, sempre magia è), che è una delle declinazioni più evidenti dello “Scuru” e uno dei canali privilegiati dell’influenza diabolica sulla realtà fenomenica. Chi non ha una visione metafisica della realtà prenderà lo scrivente per psicotico o visionario, tuttavia confermo che il romanzo di Labbate è una allucinazione della realtà, un fantasma letterario, il quale però illumina il vero da una angolatura inedita e misteriosa, come avviene in certe tele artificiose del Caravaggio, dove la luce teatrale dei personaggi emerge da una fonda oscurità, tecnica seguita da molti epigoni, che prese il nome di tenebrismo: “Lo sfondo dei dipinti nel quale i santi inginocchiati venivano impussissati dal Signuri era nerastro. Sempre nivuru” (p. 20). Traendo spunto da tale categoria della storia dell’arte potremmo quindi parlare di tenebrismo espressionistico a proposito della prosa labbatiana, la quale ricrea un sapiente idioletto a metà tra italiano letterario e dialetto siciliano nella sua variante buterese. Nessuna lingua infatti meglio del siciliano è più adatta a descrivere le tenebre, considerando la presenza ossessiva della vocale U: “Poiché, per quel che ne so io dalla mia infanzia, la U è vocale dannata, sacra a Belzebù e alla sua tribù” (Gesualdo Bufalino, L’orma del diavolo, in La luce e il lutto, Palermo, Sellerio, 1996, p. 85). Gli appassionati potranno andarsi a rileggere quel racconto scapigliato di Igino Ugo Tarchetti sulla lettera U: “Non comprendete che vi è qualche cosa d’infernale, di profondo, di tenebroso in quel suono?” (in Tutte le opere, Bologna, Cappelli, 1967, p. 58).
Alcune informazioni denotative: il narratore Razziddu Buscemi, nato a Butera, nel sud della Sicilia, emigrato a Milton, in West Virginia, rimasto vedovo, avvertendo l’approssimarsi della morte fisica, decide di affrontare i conti con il passato siciliano e comincia a vergare nero su bianco le “memorie” dell’infanzia, adolescenza e giovinezza, trascorse in quel perimetro geografico (reale, ma trasfigurato) che include il paesino di Butera, la piana e la cittadina di Gela, e la zona costiera di Falconara. Qui Labbate è stato bravo, poiché ha ricreato i luoghi di una provincia sperduta e obliata all’interno del suo laboratorio letterario, identificando una serie di immagini efficaci e visionarie, che costituiscono la vera trama del libro, superiore a qualsiasi plot già oliato, pronto da scartare. Compito dell’artista infatti è quello di ricreare il mondo esterno in maniera peculiare: il “realismo” infatti esiste solo nel giornalismo, mentre il romanzo prevede una rappresentazione (anzi ripresentazione) della realtà, che sia mimetica e deformante al tempo stesso. L’infanzia di Razziddu è tramata di religiosità e sensi di colpa. La colpa maggiore è quella di essere nato, dato che è il figlio “bastardo” di Angelina e Carmelo Pupiddu, traghettatore acherontèo di africani. Il primo nodo di dolore è quindi pre-natale e avviluppa il feto come una maledizione: potrebbe essere la prima manifestazione dello Scuru. Il secondo trauma è la scomparsa, la morte del padre naturale, inghiottito dal mare in circostanze misteriose: “Mi facevo fisime sulle cose scure che si futti il mare, e tra le cose scure c’aggiungevo mio padre” (p. 39). Ad aggravare la situazione interviene la superstiziosa Nonna Concetta, che tenta di esorcizzare il nipote, operando invero una sorta di contro-magia, che poco ha a che vedere con il rituale romano esorcistico. A relazionarsi con lo Scuru, agli occhi del ragazzino traumatizzato, è il Signore dei Puci, un feticcio di cartapesta che raffigura il Cristo morto: se lo Scuru è lo spirito (immondo), che permea la realtà col suo puzzo di morte, il padre è il diavulu e il figlio è il feticcio. Labbate quindi ricrea una Trinità blasfema, servendosi della tecnica del ribaltamento o inversione, tipicamente diabolica: “Lo ammazzava l’impaurimento che la Trinità perseguitante, lo Scuru, la Statua e u Diavulu, s’abbattesse oltre che su se stesso altresì contro la fimmina” (p. 61).
V’è tuttavia spazio per un certo umorismo (scuru), qui e là, per esempio nella scena in cui Razziddu visita il mago Nitto Petralia e viene accolto da un nano, che sembra uscito fuori da un film di David Lynch, senza contare quelle finezze stilistiche, come le ombre ingobbite alle pareti, che ci ricordano l’espressionismo di Caligari.
Nello stile fantasmatico risiede quindi la forza di questo libro, che in più punti rischia di perdersi nella voragine luttuosa che ha evocato (occorre saper gestire certe energie ctonie e annichilatrici), ma che nel complesso risulta essere una felice fioritura (una pianta carnivora dal gambo peloso) nella prateria letteraria attuale, facendo strame di editing invasivo (anche se il labor limae non manca), rispettando la sacralità barocca della sintassi, mostrando che si può ancora narrare, partorendo dall’oscurità primigenia una nuova materia dispensatrice di sorprese.
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