Magazine Pari Opportunità

La maternità come destino innaturale

Da Femminileplurale

“Luogo non c’è dove si gridi tanto.

Luogo non c’è dove dolore e pena

vengan sì poco come qui curati,

appunto perché qui sempre si grida.”

G. Benn, Sala delle partorienti

 

Alcuni spunti di riflessione a partire da Segreta Penelope di Alicia Gimenez Bartlett

Tante cose possiamo fare con il nostro corpo. La natura ci offre mille possibilità di azione, azioni, cioè, che ci sono biologicamente possibili. Alcune cose sentiamo che fanno parte di noi, della nostra natura. Ci piacciono e vogliamo farle. Altre mille, non ci appartengono, non le desideriamo, non vogliamo farle. Se pure appartengono alla nostra ‘biologia’, nondimeno per noi sono innaturali, nel senso che non appartengono alla nostra natura.

Paula Modersohn Becker, Reclining Mother And Child

Paula Modersohn Becker, Reclining Mother And Child

La maternità è una delle possibilità inscritte nel nostro corpo di donne. Non per questo però tutte le donne desiderano e vogliono essere madri: per molte è qualcosa di innaturale, in quanto contrario alla loro natura. La ‘natura’ è qualcosa di molto più plurale di quanto comunemente si pensi. Essa ha mille sfaccettature, mille volti, tanti quanti sono i volti di chi abita la terra.

C’è però, intorno a noi, tutta una narrazione che racconta una storia diversa: quella dell’istinto materno, della maternità come apice della vita di una donna, come momento supremo in cui una donna non solo realizza se stessa ma si realizza ‘in quanto donna’. Pare che, in quanto biologicamente possibile, debba essere, per forza, anche voluto e desiderato, come se la biologia segnasse inestricabilmente ciò che siamo, quello che vogliamo. Ma biologia e natura non coincidono, sono cose diverse. La natura ha in sé il segno della pluralità.

Raramente capita di leggere qualcosa che vada contro il discorso totalizzante e omologante sulla maternità. Mi è capitato pochi giorni fa con il nuovo romanzo di Alicia Gimenez Bartlett, Segreta Penelope, un libro in cui la naturalità della maternità viene messa in discussione attraverso la storia del suicidio di Sara, una donna il cui essere madre contrasta con la sua piu’ intima natura.

Come tante donne, anche Sara, si adatta al destino di essere madre per adeguarsi ad una precisa idea di normalità: quella tipicamente borghese che vede la realizzazione della donna, il suo destino naturale, nell’essere madre, destino che si compie all’interno della famiglia, altare su cui sacrificare ogni parte di sé che non si adatti a quel modello sociale.

Sara era giunta a credere che la formula ‘saper vivere’ alludesse alla capacità di maneggiare tutto l’armamentario fasullo della socialità e della maternità. Invidiava le donne che salivano sul podio della gloria materna con una medaglia d’oro sul petto. La vita per lei era un’Olimpiade della maternità. Sono sicura che se non  avesse avuto figli, avrebbe trovato la libertà necessaria per abbandonarsi ad una decadenza progressiva e costante, fino a raggiungere quella che viene definita, pedantemente, autodistruzione. Alcool, droga, eccessi di ogni genere, sesso sfrenato…e invece no, quella maledetta bambina le aveva imposto la sopportazione, fino al suicidio. Immagino si tratti di un fenomeno comune: tante donne che, lasciate a se stesse, seguirebbero il loro cammino fino all’inferno, si piegano a un inferno altrui per non danneggiare i propri figli. Scelgono la morte in vita e il suicidio a rate, quando potrebbero autoimmolarsi in modo lento e piacevole, creativo. Invece di finire con il fegato allegramente maciullato dalla cirrosi, dopo aver seguito le libere pulsioni del loro ego, finiscono per piegarsi alle regole altrui e vivere un’esistenza miserabile di sacrificio e depressione, fino al momento in cui si ammazzano senza particolare gloria.” A. Gimenez Bartlett, Segreta Penelope, pp. 140-141.


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :