Ci sono film che fanno la storia non solo perché la raccontano ma per come la raccontano.
Ieri sera, per sbaglio, il telecomando mi ha portata su Rai Uno, ho riconosciuto subito che si trattava de “La meglio gioventù” , film di cui posseggo dvd originale e che conosco praticamente a memoria.
Alessio Boni e Maya Sansa in una scena de ‘La meglio gioventù’, film del 2003 di Marco Tullio Giordana
É uno di quei racconti che se ti incontrano non puoi smettere di rivivere. O almeno questo è quello che capita a me. Sarà che amo il mio paese e la mia gente. Sarà che si tratta di trentasette anni di storia italiana (dall’estate del 1966 fino alla primavera del 2003) raccontati senza freni, con un flusso continuo di rapporti, drammi, vicende che da sole bastano a rispondere a tante delle domande che posso pormi. Che ciascuno di noi può porsi.
Apprezzato anche dalla critica, vinse al 56º Festival di Cannes il premio come miglior film della sezione “Un Certain Regard”.
Film dai connotati socio-politici molto forti, ha il merito di intrecciare la storia di un popolo con le storie dei personaggi in un equilibrio perfetto tra le vicende e le personalità dei protagonisti. Un film meraviglioso e commovente, dolce e amaro.
Tutto quello che si può sapere su questo film è su internet. Quello che vorrei sapere io invece è … dove siamo finiti? Cosa è rimasto di quegli anni? E di quella “meglio gioventù” cosa rimane? Senza peccare di retorica, sento di affermare che quella gioventù non esiste più.
É la storia che va, procede. Eppure ho nostalgia per chi dedicava la propria vita alla realizzazione di un’idea, di un sogno di giustizia o in qualcosa di simile.
Proprio quando non c’è più nulla anche quello che non era completamente pulito e puro sembra, anzi è meglio del niente. Solo che la mia generazione ha sentito più volte “Gli ideali non esistono più”, “Sono utopie” … e l’abbiamo sentite tante volte queste parole proprio da chi alcuni di quegli anni gli ha vissuti, più o meno direttamente. Ed è proprio da loro che mi sarei aspettata una continuità, per non perdere di vista tutto ciò che da quegli anni è emerso: il marcio, l’unione, il dolore, la forza, la violenza. Tutto. Perché della Storia di un paese va salvato tutto, soprattutto quando qualcuno ha creduto di poter cambiare le cose in meglio.
Luigi Lo Cascio (Nicola Carati nel film) e Alessio Boni (Matteo Carati) in una scena del film, ambientata durante l’alluvione di Firenze del 1966
Perché se non la salviamo la nostra storia, saremo perduti. Siamo perduti. Non saremo in grado di ricordare chi siamo, cosa abbiamo fatto, cosa abbiamo perso e cosa abbiamo ottenuto.
Sto dalla parte di chi di utopie vive, anche se crescendo il cinismo tende a prendere il sopravvento. Proprio per questo ricordo e riguardo volentieri il film, per non dimenticare la generosità, gli errori, la presunzione, l’egoismo, la fiducia che caratterizzano certi momenti della storia italiana.
E a quelli che dicono che nulla è cambiato (messaggio che si coglie anche dal film) rispondo che è vero, ma di certo non possiamo dare la responsabilità di non aver colto le opportunità date da certi movimenti socio-economici a chi quei movimenti li ha creati. La responsabilità è solo nostra. Avremmo dovuto difendere con i denti ogni singolo diritto, ogni respiro, ogni futuro migliore possibile.
‘Giovanna Carati (sorella di Nicola, NdR): «Senti, ma lo sai che conservo ancora una cartolina che mi hai spedito da Capo Nord nel ’66 in norvegese, credo avesse una scritta. E sotto la traduzione diceva “Tutto quello che esiste è bello!!!”, con tre punti esclamativi… ma tu ci credi ancora?
Nicola Carati: Ai punti esclamativi no, non ci credo più.»’