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La memoria e il ricordo (ossessioni più o meno letterarie)

Creato il 11 febbraio 2011 da Sulromanzo

Libro apertoNel finale del film Un’altra donna (regia di Woody Allen, 1988), uno dei film più bergmaniani del regista newyorkese, l’attrice Gena Rowlands pronuncia una battuta che mi è sempre rimasta impressa, anche quando la trama del film si era ormai quasi dissolta nella mia mente: “Chissà se i ricordi sono qualcosa che hai perduto o qualcosa che hai trovato…”

Frase apparentemente elementare, eppure, come sempre nella genialità di Allen, rappresenta bene il bivio conoscitivo con cui ogni giorno la memoria e la coscienza ci costringono a fare i conti. E in questi giorni, leggendo il bel libro di Lorenza Foschini Il cappotto di Proust (Mondadori, 2010), ripensavo proprio a questo concetto di perduto e ritrovato.

Mnemosyne (dal greco “memoria”), nella mitologia greca, è appunto la personificazione della memoria: secondo la leggenda, dalle nove notti d’amore con Zeus nacquero le nove Muse, che presiedono il Pensiero in tutte le sue forme. E Mnemosyne è il nome che il grande iconologo e storico dell’arte Aby Warburg aveva posto come epigrafe sulla porta della sua biblioteca e che scelse per il suo grande progetto di un atlante di immagini.

Roma, Biblioteca Hertziana, 1929: Warburg tiene una conferenza dal titolo Mnemosyne, in cui espone il suo progetto di un atlante illustrato, Bilderatlas Mnemosyne, il suo grande sogno. Un atlante di immagini dell’antichità che potessero arrivare fino a noi, un patrimonio vastissimo di significati e simboli che si richiamano gli uni con gli altri, secondo quella che era la convinzione profonda di Warburg: che cioè se fosse rimasta in vita quella ricchezza di immagini e significati, l’umanità stessa avrebbe conservato la propria identità senza snaturare mai la propria vocazione alla conoscenza e la propria dignità di genere umano.

Poi, nella storia dell’Europa, gli eventi precipitano tragicamente. E nella notte del 31 dicembre del 1933, Fritz Saxl, l’allievo di Warburg, quello che forse più di tutti credeva nel sogno smisurato del suo maestro, decide con coraggio e risolutezza di trasferire a Londra tutto il patrimonio raccolto.

Warburg Institute
A tutt’oggi il Warburg Institute di Londra è a disposizione degli studiosi. Mi colpiscono le coincidenze: l’origine ebraica di Warburg, la decisione sensitiva dell’allievo di salvare la biblioteca di Warburg nella sua imponente classificazione, salvando in questo modo non solo il progetto, l’essenza, il traguardo del suo maestro (peraltro a quel tempo ancora in vita ma turbato da una seria malattia mentale, dalla quale in seguito sarebbe guarito) ma soprattutto la memoria.

Un altro modo di guardare alla memoria: gli oggetti. Una decina di anni fa il critico Francesco Orlando scrisse un saggio fittissimo, un vero e proprio archivio, dal titolo Gli oggetti desueti nella letteratura. Dove, tra elenchi e citazioni, è possibile ritrovare le tante ossessioni letterarie degli scrittori, cioè la memoria che gli scrittori possiedono delle cose, degli oggetti, a volte con feticistica sofferenza, a volte con malinconico conforto. Ed è sintomatico della sensibilità dello scrittore l’accostamento compiuto tra il personaggio e gli oggetti che ne preannunciano la comparsa in scena, o che ne ricordano simbolicamente la personalità.

Ritorniamo così alla domanda iniziale. A me sembra che tutta la letteratura sia percorsa da questa domanda sul ricordo, poiché l’uso stesso della parola letteraria si muove a volte da una memoria interna dello scrittore, che costruisce su immagini e suggestioni passate le trame dei suoi personaggi e delle sue storie. E a seconda di come risponde a questa domanda, vale a dire se un ricordo ci riporta qualcosa che abbiamo perso, o se invece, nel senso proustiano, recupera e ricostruisce l’essenza stessa della vita e dell’essere, ogni scrittore si spinge in un unico bivio fondamentale, comune a tutti noi in quanto umani.


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