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La Messa solenne in re maggiore di Ludwig van Beethoven

Da Paolo Statuti

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Il 20 novembre 1942 l’XI Stagione sinfonica dell’Eiar (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche, fondato nel 1927 e operante fino al 1944) fu inaugurata con l’esecuzione della Messa solenne in re maggiore di Ludwig van Beethoven diretta da Victor de Sabata. Interpreti: il soprano Alba Anzellotti, il mezzosoprano Ebe Stignani, il tenore Francesco Albanese, il basso Duilio Baronti, maestro del coro: Bruno Erminero.
Tra i libri di casa mia c’è una vecchia edizione del volume Beethoven di Riccardo Specht, stampato nel 1938 da Fratelli Treves Editori Milano. Tra le pagine di questo libro ho trovato un ritaglio di giornale del 1942, con un ispirato e vibrante articolo della musicologa Bianca Becherini, scritto per l’occasione. Lo propongo oggi con vero piacere ai lettori del mio blog.

Fra i grandi capolavori dell’arte musicale splende quest’opera che il Maestro di Bonn, dedicandola all’amico arciduca Rodolfo, avrebbe voluto vedere compiuta nel giorno della consacrazione di questi ad arcivescovo di Olmütz. Ma la realizzazione gli presentò gravi difficoltà. Incominciata nel 1818, la Messa non era finita nemmeno nel ’20, sì che fu potuta presentare all’arciduca Rodolfo solo nel marzo del ’23, a tre anni di distanza dall’avvento all’episcopato.
Che cos’era avvenuto? Partito dalla semplicità del testo liturgico, Beethoven -a differenza di numerosi altri compositori – aveva sentito che questo non era una trama per rianimare vecchie e stereotipate formule, ma un fondamento per dar vita alle concezioni ideali che sempre fremevano nel suo spirito. Non che potesse riattaccarsi a Bach, ossia all’epoca che aveva saputo cantare con vero rapimento religioso l’abbandono nella misericordia divina; ma lontano da chi ammirava senza fervore le immagini dei testi sacri o da chi li riduceva a preghiere ripetute senza commozione interiore, cantava le sue proprie aspirazioni, che nell’appassionato linguaggio biblico incontravano singolare vitalità. Nella nuova creazione si concretava un mondo vissuto e superato, trasformato dal genio in espressioni di sublime bellezza. Tutta la vita spirituale di Beethoven si animava nelle grandi pagine della Messa: i colloqui con Dio, sì disperatamente invocato nei lunghi anni dell’angoscia; la fede nella virtù, anteposta sempre ad ogni interesse; l’amore per l’arte, per la giustizia, per il buono e per il bello che la vita offre ad ognuno e che dev’essere guadagnato e religiosamente conservato. Seguendo il proprio temperamento l’autore cantava un’epopea, che abbracciando il cielo e la terra dava vita ad una titanica concezione, ad un’opera d’arte, davanti alla quale la posterità avrebbe sostato commossa.
La sua stessa vita cambiò durante la preparazione della Missa solemnis. Narra lo Schindler che gli scatti del suo carattere divennero meno violenti, e che spesso rimaneva assorto in un rapimento spirituale, straniandosi da tutto ciò che lo circondava. Si chiudeva in se stesso. Più lunghe divenivano le sue passeggiate attraverso la campagna solitaria e le corse notturne per le vie di Vienna, ove una volta fu incontrato ad ora tardissima, gesticolante sotto la pioggia, senza cappello, mentre lo sguardo cercava un’immagine invisibile, un fuggitivo pensiero musicale…
La Missa solemnis segue la liturgia; è divisa nelle parti stabilite dal culto. Le prime due, il Kyrie e il Gloria, sono quelle pervase da un più alto spirito di cristianità; aderiscono all’espressione del testo liturgico mantenendosi in un’atmosfera musicale superiore, senza drammaticità di contrasti, senza varietà di effetti. Fin dalle prima parole del Kyrie – ripetute tre volte fra coro e solisti – la musica delinea alte immagini; superiori nella loro arcana bellezza, non turbata da nessun avvenimento umano. Il Gloria si apre con un potente grido di giubilo, che ripetuto di voce in voce, si solleva fino alla maestà di Dio, invocando la pace per gli uomini, e seguendo – con accenti vibrati e commossi – una ininterrotta linea ascendente che, fino alle ultime parole del testo, insiste a celebrare la gloria dell’Eterno.
Ma la parte in cui Beethoven mostra più viva la sua personalità, è il Credo. Sarebbe azzardato dire – come alcuni critici – che egli ha tentato di dar vita ad un suo particolare Credo. Per una composizione musicale che segue un determinato testo, è difficile affermare i criteri morali, filosofici o allegorici che l’autore intende seguire, quando, per di più, egli non dice niente in proposito; ma il testo liturgico non è seguito passivamente nel Credo beethoveniano. La composizione raggiunge una forza veramente epica; l’autore scalpella ancora una volta la figura dell’eroe, che invece di compiere le sue gesta sulla terra, le allarga fino al cielo, divenendo un impulso che anima il visibile e l’invisibile , che dà vita ad ogni creatura e ad ogni opera buona.
Delle altre parti, sensibilissimo è il Benedictus, con la dolce melodia mormorata dal violino sull’esile accompagnamento dei flauti; e l’Agnus Dei, ove alla domanda della pace è aggiunta la didascalia: «Preghiera per la pace interna e per quella esterna». Esso riassume tutte le aspirazioni del grande musicista, sbattuto da asprissime lotte e animato da superiori idealità.
La forma della grande opera è la sinfonico-corale. Nelle varie parti il coro si alterna al quartetto dei solisti, gli assolo sono rari e privi di virtuosismi. La polifonia domina sovrana, estendendosi dalla semplice omoritmia fino alle fughe più elaborate. L’espressione è elevatissima; le parole intese nella più alta significazione, il dramma nella sua più profonda complessità.
Bianca Becherini



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