Esistono due sport che sono epici per natura. La narrazione dei protagonisti, le dinamiche che intercorrono, i ritmi e le pause che si succedono, sono una sceneggiatura perfetta e già confezionata, senza la necessità di particolari modifiche o aggiustamenti. Sono avvolgenti per loro conto, spesso romantiche, spietate, leggendarie. Portano con sè una serie di implicazioni sociali e/o familiari ragguardevole, aumentano il peso specifico della narrazione, e dell’intensità della trama. Questi sport sono gli scacchi e la boxe (sapevate, per inciso, essere parola francese con cui si intende il pugilato italiano; boxing, nel mondo anglosassone?). Per gli scacchi vi consiglio, semplicemente, di leggere questo articolo. Vi renderete subito conto di come un resoconto giornalistico possa trasformarsi riga dopo riga in uno splendido racconto, se non già un soggetto per una sceneggiatura cinematografica. Un giovane adolescente norvegese -patria arida di tradizioni nel campo-, che non usa i computer per allenarsi al gioco perchè non lo stimolano, è arrivato all’età di 13 anni e spiccioli a essere nominato Gran Maestro e primo nella graduatoria mondiale. Ci sono praterie per l’analisi psicologica, caratteriale, comportamentale di un campione degli scacchi, molteplici riferimenti e connessioni con la magia dei numeri, della matematica, della probabilità; quanto ancora potremmo parlare della forza della mente, delle vastità della memoria, della forza del genio di osare e innovare. Non mi dilungo e vi lascio il piacere della lettura, ricordando solo, come ulteriore esempio di quanto gli scacchi siano narrativi, le implicazioni che l’avvento dei computer hanno avuto nella storia e nella tecnica di questo sport. Gli scacchi si sono trasformati nella metafora migliore e più facilmente accessibile della sfida uomo-macchina, topos letterario tra i più sfruttati e percorsi.
La boxe, invece, per me ha un elemento quasi proustiano. Ricordo, ogni volta, i sabato notte a casa di mio nonno, appassionato di pugilato, che mi lasciava guardare gli incontri che venivano trasmessi ad un’ora tarda -o così a me sembrava rispetto alle mie abitudini- insieme a lui. Lui che stava seduto a capotavola, con la scodella sempre colma di Coca Cola. Beveva solo Coca Cola e solo dalla scodella. Era gli anni in cui il pugilato aveva un solo nome: Mike Tyson. Non voglio qui dare un giudizio sull’uomo -o sulla bestia-, mi lascio solo portare dai ricordi fino a quegli anni, in cui sul ring Iron Mike era semplicemente devastante. Un crogiulo di agilità e potenza come forse mai se ne erano visti. Quando guardi al rallentatore un pugno, come quelli che Tyson, letali, assestava, quando vedi cadere a terra inerme l’avversario, quando nel profondo dei suoi occhi scorgi il vuoto, la mente annebbiata, la coscienza scossa, quando accade tutto questo, si capisce la portata emotiva della boxe. Una metafora di vita, quasi sicuramente, ma anche un lasciapassare verso l’intima natura animalesca dell’uomo. La più brutale, quella violenta e aggressiva. Eppure anche quella regolamentata da norme da tutti condivise. Non si spiega altrimenti il successo cinematografico di questo sport, da Roky a Million dollar baby. Lo spettacolo che ruota intorno all’incontro, la rivalità che viene costruita, il campione e lo sfidante, lo scontro all’ultimo pugno, l’allenatore e il manager, tutto viene naturalmente ad aggiungersi e a incastrarsi perfettamente in un meccanismo oliato e vincente. Il match tra omoni muscolosi che si muovono, rapidi, l’equilibrio tra gambe e braccia, la capacità di attesa, la forza di incassare, la rapidità nello scagliare il colpo definitivo, sono tutti ingredienti di una storia avvicente e irresistibile per natura racchiusa su un ring. L’eleganza della brutalità. Basta un pugno, una sola occasione per innalzarsi o sprofondare.
Gli scacchi e la boxe come metafore per raccontare la propria vita, la propria natura, oppure come semplici meravigliose narrazioni.