Da Anarchaos.org
Diamo uno sguardo più approfondito al tema che più interessa agli anarchici: il potere. Ovviamente l’abolizione del potere. La mia tesi è che il potere nasca con la nascita delle città e che non è possibile la vita di una città senza potere. Costruire l’anarchia significa quindi distruggere le città. Con le città nasce la divisione del lavoro, con essa l’oppressione della gran parte dei lavoratori e quindi la struttura militare che sorge a tutela della minoranza degli oppressori: il potere. Tale origine si trova quindi in ultima istanza all’interno dei rapporti di classe; ma questa è un'altra storia, per ora concentriamoci sul potere.
La retorica del branco. Quando nasce l’oppressione?
Se c’è una cosa di cui veramente abbiamo le palle piene, questa è la retorica del branco. Antropologi, sociologi, giornalisti, commentatori ignoranti dietro una tastiera, scorregge su facebook, persino i gruppi a difesa delle donne (“abusata dal branco”)…tutti ad usare la parola “branco” in senso dispregiativo.
Parallelamente, e solo apparentemente in contrapposizione, troviamo i cosiddetti darwinisti sociali (che a dispetto del nome, non hanno letto nulla di Darwin), i positivisti, gli stregoni della scienza al servizio della borghesia, che cercano invece di convincerci della naturalità del potere, usando il branco come esempio.
Il giusnaturalismo anglosassone, se si esclude Hobbes, si fonda proprio su questa idea: che il capitalismo sia non solo il migliore dei mondi possibili, ma addirittura il solo mondo possibile, quello più naturale, dato che il potere e la proprietà sono delle cose del tutto naturali. Solo Hobbes fonda il potere in contrapposizione con la natura. Per lui ovviamente il potere assoluto del monarca è una cosa bellissima, una cosa che nasce per difendere gli uomini dalla brutalità dei rapporti barbari e incivili; ma quanto meno ha il merito di riconoscere che il potere nasce negando la natura.
Quello che meglio di tutti ha capito l’origine del potere è però Russeau. Lui capisce il rapporto dialettico fra potere e natura (in che senso la nega e in che senso invece è “naturale”) meglio di chiunque altro, pur essendo scettico nella possibilità di tornare indietro. Ma soprattutto è colui che per primo individua nella proprietà l’origine della civiltà: Il primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire “questo è mio” e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli, fu il vero fondatore della società civile.
Ma solo la Bibbia individua nella città la forma logistica dell’oppressione. Caino fondatore di città, Abele pastore; la mostruosa metropoli di Babele; ecc.
Lo stesso filone cosiddetto anarchico primitivista non è così lucido nella sua analisi. Zerzan se la prende con l’agricoltura come momento di inizio, trascurando completamente le teorie sulle società gilaniche. Altri sono vegani, trascurando che prima dell’agricoltura si viveva di caccia e raccolta (l’uomo smette di essere erbivoro con la glaciazione, molto molto prima della nascita dell’agricoltura, delle città, della civiltà).
Quando, come anarchaos intervistammo Zerzan, un compagno molto più preparato di me su questi temi propose una domanda proprio intorno alle società gilaniche; società agricole ma nondimeno egualitarie, socialistiche e autenticamente anarchiche, secondo i fautori di questa teoria. E la risposta fu breve e infastidita. Perlomeno così ci sembrò un po’ a tutti, quando la commentammo insieme. Un lettore ci propose un lunghissimo articolo, che consiglio vivamente di leggere per approfondire il tema.
La mia precisa opinione è che l’oppressione nasca con la divisione in classi, con lo sfruttamento intensivo della terra e degli uomini, quindi con l’organizzazione logistica di tali nuovi rapporti produttivi all’interno di questa potente nuova entità – al contempo lager e centro del potere, residenza e prigione, infrastruttura per il mercato e potenza militare: la città.
In sintesi, astraendo dai pensatori e dalle teorie più elaborate, possiamo riassumere la retorica del branco in queste due posizioni: 1) quelli che disprezzano in branco e che usano la parola “branco” per definire il bullismo, l’inciviltà, la brutalità maschile, il nonnismo; 2) quelli che invece giustificano il potere dicendo che esso esiste anche in natura, portando come esempio il branco stesso. Posizioni che andremo a smontare nel prossimo paragrafo.
In difesa del branco.
Lo studio che gli esseri umani fanno sulla natura e sugli altri animali risente, come è naturale che sia, della posizione soggettiva degli umani stessi. E siccome da millenni viviamo sotto l’oppressione dello sfruttamento e del potere, è evidente che questi influenzano il nostro modo di guardare le cose. Tanto è vero che quando la scienza contemporanea studia la società delle altre specie animali lo fa usando una terminologia assolutamente antropomorfa. L’ape è regina, il capo branco, il maschio alfa, ecc.
Questi termini sono però devianti, perché applicano ad un mondo, anzi a tanti e diversissimi mondi, categorie proprie della civiltà metropolitana moderna. L’obbiettivo è, o di usare il branco in senso dispregiativo, sottolineando quanto sia ad esso superiore la società civile, o viceversa fondare su basi naturali lo Stato e le istituzioni autoritarie.
Bisogna quindi chiarire una cosa: il branco è una forma di organizzazione completamente diversa da quelle del potere costituito. E’ del tutto naturale che esistano individui più forti e altri meno forti, che esistano soggetti che riescono a riprodursi ed altri che o non vengono desiderati o gli viene impedito. Sono cose che succedono e che succederanno anche nella società liberata. Chi pretende dall’anarchia una tale ideale uguaglianza è destinato, e forse è proprio ciò che vuole, a non vedere mai realizzata la propria utopia.
Non solo la politica, ma l’intera natura, si basa sui rapporti di forza: anche nel mondo vegetale c’è una lotta per il godimento degli spazi. Nondimeno non c’è il caos violento con cui cerca di terrorizzarci Hobbes, ma nella lotta c’è una armonia, ci sono casi di collaborazione, persino di coevoluzione fra specie diverse. Chi si immagina l’anarchia priva di rapporti di forza è un illuso. Quando bisognerà prendere una determinata decisione – questo vale anche ora, nella guerra di liberazione – ci sarà di certo chi è più affascinante, chi è in grado di convincere gli altri, chi intuisce l’ipotesi migliore. Ma è cosa ben diversa dall’elezione di un leader, cosa ben diversa dalla delega.
Per tornare agli animali, io questa cosa la vedo studiando i miei cani. Non è assolutamente vero che c’è un capo, un monarca, un leader. Ci sono sicuramente qualità diverse – quello più prepotente, quello più fifone – ma nessuno è davvero una figura dominante (come invece amano dire gli educatori cinofili) sulle altre. E non c’è, tanto meno, una lotta astratta per il dominio in sé. C’è una lotta per mangiare, per riprodursi; non per il potere in quanto tale. Non c’è un potere in quanto tale.
Aggiungo di più. Io sono per una concezione assolutamente positiva, anche in campo morale, per quanto riguarda il branco. Io desidero avere un branco. Desidero trovare una forma sociale con cui condividere con i miei affini le sfide che mi trovo di fronte. Desidero che ci sia qualcuno più forte di me che mi difenda se scoppia una rissa. Desidero sentirmi tutt’uno con i miei compagni di branco.
Il branco è una cosa bellissima. Nel movimento anarchico, sin dalla sua nascita c’è stata un sacco di discussione sul tema dell’organizzazione. Gli individualisti contro i comunisti, l’ipotesi insurrezionalista di una organizzazione soltanto informale, ecc. Ci sono tantissime proposte. Forse una soluzione potremmo trovarla proprio nel concetto di branco. Vivere la propria esistenza collettiva come membri di una branco di individui affini. Dove non ci sono leggi e le regole sono tutte implicite, naturali.
Insomma, non è vero che il branco sia una modalità brutale, terribile e irrazionale di esistenza collettiva. La natura non è la guerra del tutti contro tutti come ci vogliono far credere. E al contempo, non è vero che il branco sia un esempio di esistenza naturale del potere. Il potere politico, il potere che si fa istituto, spirito oggettivo direbbe Hegel, non è la differenziazione dei compiti che possiamo trovare in un branco. Il potere politico è oppressione istituzionale e nasce da dinamiche di classe. Nel momento in cui nascono gli oppressi, gli oppressori decidono di istituire un potere politico, una polizia, una casta sacerdotale, finalizzati esclusivamente al perpetuarsi della loro oppressione.
Quindi il potere non nasce come evoluzione lineare del branco naturale, ma è una cosa completamente differente: è lo strumento dell’oppressione di classe all’interno delle città.
L’invenzione di Atene.
La storia del potere non è separabile dalla storia delle città. E’ la stessa storia. La città è il luogo dove hanno sede i palazzi del potere (politico, religioso, amministrativo, giudiziario, ecc.). Nella città risiedono le caserme dei gendarmi che vigilano sulla volontà di rivolta degli sfruttati. Nella città vengono ammassati i proletari, massa inerte, così la vorrebbero, che dorme nei ghetti delle periferie e ne esce per andare a lavorare nelle apposite aree. Sempre nella città ci sono le aree residenziali dei padroni, degli oppressori. Non è nemmeno pensabile una città libera dal potere.
L’anarchia non esisterà fino a quando esisteranno le città: fino a quando esisteranno le città ci sarà un potere che le gestisce. Nemmeno il comunismo esisterà fino a quando esisteranno le città: perché fin che ci saranno città ci sarà la divisione di classe e quindi l’oppressione di classe. Il controllo operaio della città deve essere una fase di transizione, come un carcere in mano ai prigionieri: una rivolta che ha come obbiettivo, se non la libertà, almeno la contrattazione di condizioni migliori.
Un mito purtroppo duro a morire, anche fra gli anarchici, è quello della polis greca, di Atene in particolare, come modello di libertà. Atene, ci dicono, sarebbe l’esempio che una città in mano al popolo è possibile. Una balla.
Una balla tra l’altro che ci viene tramandata dalla letteratura classica, le cui fonti sono al 90% ateniesi. E’ come se uno fra tremila anni ci informasse sulle libertà negli Stati Uniti di Bush attraverso i testi dei neoconservatori.
Si racconta di una società cosiddetta a democrazia diretta. Tutto il potere era in mano al demos, che lo esercitava senza deleghe. Quando queste erano però necessarie, tanto si era democratici, che non c’erano nemmeno le elezioni e nella maggior parte dei casi gli incarichi venivano affidati per sorteggio. In modo da non favorire nessuno, nemmeno chi ha la retorica migliore o mezzi più ricchi per la propaganda. Era la sorte a decidere. Se ci fermiamo qui, quasi ci sembra di credere che una città governata interamente dal popolo sia possibile.
Andiamo a vedere alcuni dati, per scoprire la dura realtà. Allo scoppio della guerra del Peloponneso, che viene preso come il momento di massimo sviluppo di Atene, vi erano forse fra i 40 mila e i 60 mila cittadini maschi adulti. Questi sono i soli a godere dei diritti politici. Per altrettante donne la democrazia diretta era un eufemismo per descrivere una società non certo felice dal loro punto di vista. A questi si aggiungano circa 10 mila stranieri: i meteci, i quali non avevano alcun diritto politico, nonostante fra questi troviamo personaggi di altissimo livello (Erodoto, Protagora, Aristotele, ecc). Per quanto riguarda gli schiavi, nemmeno gli ateniesi sapevano bene il loro numero. Il censimento del IV secolo, secondo gli studiosi inaffidabile, parla di 400 mila schiavi.
La questione non è nozionistica. Stiamo parlando della più grande città del mediterraneo (fino a che non arrivò Roma), 500 mila abitanti, una metropoli; la sola metropoli nella storia, secondo la leggenda, ad essere governata in maniera radicalmente democratica. Ebbene, la tanto sbandierata democrazia diretta ateniese era goduta da meno del 10% della popolazione. Tutti gli altri erano donne, stranieri e soprattutto schiavi. E non godevano di alcun diritto.
Atene come la conosciamo è una invenzione. Atene non esiste, non è mai esistita.
Il falso mito della democrazia diretta. Cittadina od elettronica che sia.
I grandi pensatori e i filosofi della politica dividono le forme di governo delle città in democrazia, aristocrazia e monarchia (le forme degenerate di queste ultime sono definite rispettivamente oligarchia e tirannide). Solo in età contemporanea ci siamo inventati la balla della ulteriore suddivisione della democrazia in diretta e indiretta. Da Aristotele all’illuminismo francese, chiedete a chi volete, qualunque siano le sue idee politiche. Nessuno parla mai di democrazia diretta e indiretta. La democrazia è quella ateniese. Il sistema governativo di oggi verrebbe definito da ogni grande teorico del passato (anche recente) una aristocrazia elettiva, un’oligarchia dove la casta è eletta a suffragio universale. Quindi oggi non siamo in democrazia, la democrazia indiretta non esiste. Punto. Lo stesso strumento delle elezioni per la scelta delle oligarchie (che tra l’altro non vale per le cariche più importanti, si pensi ai tecnocrati europei che ordinano ai nostri governi elettivi cosa fare) è uno strumento inusuale per le democrazie, che preferiscono, storicamente, il sorteggio. Solo il sorteggio, ci insegnano gli antichi ateniesi, è democratico; con le elezioni invece vince sempre il più abile, il più ricco, il corruttore, quello con più clientele e con mezzi di propaganda più potenti.
Quindi basta con queste balle e parliamoci chiaramente. La democrazia è quella cosiddetta diretta, quella di oggi è oligarchia elettiva.
Nondimeno, la stessa democrazia (diretta) non è un mondo così bello nel quale vivere. Ne sanno qualcosa i 460 mila ateniesi che subivano le decisioni democraticamente prese in assembla plenaria o nelle magistrature dove erano estratti a sorte i 40 mila fortunati cittadini.
La democrazia (diretta) era possibile ad Atene perché c’erano 400 mila schiavi che lavoravano, mandando avanti l’economia dell’Attica, mentre i cittadini si riunivano nelle assemblee. Senza il sistema economico schiavistico i cittadini non avrebbero potuto godere della democrazia, poiché sarebbero dovuti andare a lavorare per vivere. Paradossalmente la metropoli democratica è stata possibile soltanto nel peggiore dei mondi possibili, molto peggiore del capitalismo di oggi: lo schiavismo. Senza schiavi, senza questi strumenti animati, come li chiama Aristotele, la democrazia diretta sarebbe stata impossibile. Ecco spiegato l’imperialismo della democratica Atene: conquistare ricchezza, imprigionare nuovi schiavi in grado di mantenere i privilegi democratici.
Oggi giullari di corte ci propongono una nuova forma di democrazia (diretta): la cosiddetta democrazia elettronica. Esattamente come la democrazia ateniese (goduta da 40 mila cittadini su 500 mila abitanti) anche la democrazia elettronica si fonda sull’esclusione della gran parte delle persone. Come hanno giustamente detto i WuMing, commentando il successo elettorale del M5S, la democrazia elettronica è fortemente esclusiva. E’ esclusiva nei confronti delle persone anziane. Ma lo è, a sorpresa, anche nei confronti di un sacco di giovani proletari che non hanno internet. Io conosco diversi amici, coetanei e più giovani di me, che fanno o il meccanico, o il barista, ecc, che non hanno computer a casa. In generale è esclusiva nei confronti dei lavoratori. Chi sta in fabbrica 8 ore non ha né voglia né tempo di partecipare ai dibattiti online. Se lo è ora, figuriamoci in una società immaginaria dove abolito il parlamento tutte le decisioni sono prese online. Chi ha meno tempo, i lavoratori, rimane ai margini. E con loro gli anziani, i senzatetto, chi vive in montagna, chi non ha i soldi per le bollette o per il pc.
Contro il potere, contro le città.
Insomma non c’è potere giusto al mondo. Nemmeno quello democratico. Una città gestita dal popolo collettivamente è impossibile. Città significa divisione in classi. Città significa amministrazione, quindi amministratori e amministrati. Significa sicurezza, quindi sbirri che se ne occupino, galere in cui rinchiudere i ribelli. Significa autodifesa, quindi eserciti.
La questione della distruzione delle città è centrale nella campagna anarchica contro ogni forma di potere politico. Mi rendo perfettamente conto che si tratta di un processo addirittura geologico. E’ tutta aperta la questione della transizione. Io sono certo che una transizione graduale sarà impossibile. La distruzione delle metropoli avverrà per crisi e disastri. La società metropolitana sta portando il pianeta alla distruzione, e quindi se stessa all’autodistruzione.
Si tratterà di un’epoca di transizione non indolore. Qualcuno mi chiede se si può sostituire la parola distruzione con quella di decostruzione del potere metropolitano. Io temo proprio di no. Ovviamente ci saranno importantissimi elementi di decostruzione. Anche teorica. Ma saranno grandi sconquassamenti distruttivi a fare la differenza. Che ci piaccia o meno.
Michele Fabiani
[Approfondimenti]
Distruggere le città (di Michele Fabiani)
http://www.anarchaos.org/2009/01/distruggere-le-citta-di-michele-fabiani/
La metropoli e il linguaggio (di Michele Fabiani)
http://www.anarchaos.org/2013/04/la-metropoli-e-il-linguaggio-di-michele-fabiani/
Dal "Discorso sull'origine della disuguaglianza di Rousseau all'anarco-primitivismo di Zerzan (di Michele Fabiani)
http://www.anarchaos.org/2011/06/dal-discorso-sullorigine-della-disuguaglianza-di-rousseau-allanarco-primitivismo-di-zerzan-di-michele-fabiani/
Intervista a Zerzan (a cura degli utenti del forum di anarchaos)
http://www.anarchaos.org/2010/10/intervista-a-zerzanla-civilizzazione-non-e-uno-sviluppo-naturale-inevitabile-guardare-piu-in-profondita-di-200-anni/
Civiltà libertarie nel neolitico (8000 a.C.-2000 a.C.). Una grande lezione per il nostro futuro (di Ario Libert)
http://www.anarchaos.org/2010/11/civilta-libertarie-del-neolitico-8-000-a-c-2-000-a-c-una-grande-lezione-per-il-nostro-futuro/