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La mia storia

Creato il 16 settembre 2015 da Alby87

I miei lettori sanno che ci son due cose che faccio di rado su questo blog: la prima è parlare di me, la seconda è parlare di emozioni.

Non parlo di me perché non credo che in generale al lettore interessi io, e perché quello che dico deve sostentarsi anche se il mio lettore non sa quante pubblicazioni ho fatto, quanti soldi c’ho, dove son stato in vacanza quest’anno, dov’è il posto più strano in cui ho scopato, quante lingue ho imparato, quanti bellissimi figli ho, quant’è regolare il mio intestino, quanto è saporito il mio sperma eccetera. Queste cose servono solo ad alimentare un ego ipertrofico (ovvero un ego debole), e di solito costruiscono un’immagine falsa, quindi non li uso. Sì, c’è un capitoletto su di me qui sul blog, ma leggetelo, se vi va: parla di come ragiono e di perché scrivo, ma di informazioni biografiche ci son solo l’ambito di studi (info sorpassata, peraltro) e l’orientamento sessuale.

Poi non parlo di emozioni, sempre come norma, perché sono roba mia e mi dà fastidio esporla in pubblico più o meno quanto mi darebbe fastidio esporre i genitali.

Eppure sto per infrangere entrambe le regole, parlando dell’esperienza che io ho avuto con l’omofobia. Perché alla fine ho deciso di farlo?, mi chiederete.

Ebbene c’è una motivazione razionale, come in quasi tutto quello che dico e faccio: le emozioni non si possono ignorare, la ragione non guadagna nulla dalla loro esclusione. La contaminazione, quella è pericolosa: il prendere decisioni irrazionali perché accecati da un’emozione, quello è pericoloso. Ma ignorare del tutto o in parte l’esistenza ed il significato delle emozioni umane è semplicemente errore cognitivo. Le emozioni ci sono, sono parte di noi, sono un dato naturalistico, se volete; sono un “fatto”, esattamente come lo sono una forma o un colore. Io vorrei poter dire “rabbia”, aver evocato nei lettori efficacemente il fatto corrispondente, e dopo poter continuare senza comunque essere confusi dalla presenza della rabbia. Per questo non voglio mai creare o trasmettere emozioni quando scrivo, solo nominarle. Tuttavia, ho spesso l’impressione di parlare di emozioni senza che le persone mi intendano.

Ad esempio, qualche tempo fa ho avuto scambi di pareri con un paio di membri del popolo del “family day”. Solite offese e luoghi comuni che queste persone sono state abituate a ripetere dai loro maître à penser. Ho anche “giocato” l’argomento del suicidio fra gli omosessuali; lo tiro in ballo spesso perché è la prova provata dei danni dell’omofobia, e perché è un argomento razionale e oggettivo che ha piena e indiscutibile cittadinanza in qualsiasi dibattito politico.

In quell’occasione, però, son venuto meno alla mia regola di restare esclusivamente sul dato oggettivo, e ho anche accennato al fatto che l’argomento mi riguarda direttamente. Ci sono stato portato dal fatto che mi fa incazzare come un leone con le emorroidi sentire gente giustificare quello che fa agli omosessuali con la difesa dei bambini (presto sarà chiaro perché).

In un caso, non ho più avuto risposte. In un altro, la risposta è stata “voi omosessuali siete solo lagnosi!”

Sembrano pessimi risultati. Ci aspettavamo un minimo di compassione, no?

Ma c’è stata. Dai, non vi aspetterete che gente che fino a ieri si slurpava Gandolfini in un giorno diventi gay friendly, no? Guardate questi esiti da un altro punto di vista: sono due fughe.

“Voi omosessuali”…

EHIII! Sono io, ho nome e cognome, non sono “voi omosessuali”! Guardami negli occhi, dillo negli occhi a me che infliggere assurde ed inutili sofferenze a me da bambino serviva per difendere i bambini!

Non ce l’hanno fatta a guardarmi negli occhi, questo è quello che è accaduto. È questo è segno che c’è un’umanità. Solo che per tirarla faticosamente fuori ho dovuto mettere in campo una mia esperienza concreta.

Ecco allora la ragione per cui non comunicavamo; le statistiche non le capivano. E non le capivano perché dicevo “cento gay suicidi” e non si formava nella loro mente l’immagine giusta, cioè quella di una persona reale, in carne, ossa, palpiti, interessi, conversazioni, amori, famiglia e nel pieno della giovinezza, che si trasforma in un banchetto per larve. Il tutto moltiplicato per cento. Evidentemente “cento gay suicidi” evoca qualcosa di troppo astratto e inconsistente: non c’è il cadavere putrefatto in quell’immagine, ma allora è un’immagine falsa, incompleta, perché un suicidio comporta un cadavere tumefatto, e cento suicidi ne comportano cento, con cento funerali e cento lapidi e un cenone di capodanno con cento portate per vermi saprofagi.

Dunque, oltre a fornire le statistiche, bisogna parlare di storie vere e personali, per comprendere che cosa significano davvero quei numeri.

E che storia potrei raccontare io, se non la mia? E voglio farlo, perché credo che la mia sia una “buona” storia. La trovo buona perché non è assurdamente drammatica: non c’è HIV, non ci sono padri che ti picchiano con la cinghia, non ci sono pestaggi o tentati omicidi, non mai sono stato stuprato né licenziato per la mia omosessualità, e infine sono vivo per raccontarla. È per certi aspetti una normalissima storia LGBT, sul versante “tranquillo”, di quelle che non andrebbero mai in TV perché non c’è il dramma tremendo; o meglio, c’è un dramma, ma è un dramma senza sangue, e dunque troppo poco plateale per poterlo dare in pasto a Pomeriggio 5. Ricordatevi bene questo punto, dunque: questa è una storia che non rappresenta né il meglio né il peggio che può accadere nella vita di un LGBT; non è, insomma, niente di straordinario. Addirittura, sulla base di quello che ho vissuto, stando agli omofobi io sono una persona che non è mai stata vittima di omofobia. D’altro canto, parafrasando Adinolfi, “riconosci i mafiosi perché dicono che la mafia non esiste: riconsocerai gli omofobi perché dicono che l’omofobia non esiste”.

Quindi no mazzate sul cranio = no omofobia. Fissiamolo bene questo aspetto.

Dunque, poiché a quanto pare la mia è una storia di una non-vittima di omofobia, penso che meriti di essere raccontata.

Scrivevo poco sopra che il suicidio e la depressione li conosco da vicino. Ma né l’uno né l’altra spuntano come funghi, non sono “cose che capitano”; hanno una storia, legata a quella delle loro vittime.

La mia è quella che segue. Sono nato nella regione più disagiata d’Italia (sappiamo tutti qual è), e ho fatto le elementari e le medie in due scuole che non erano esattamente quelle dei VIP della città. La partenza poteva esser migliore, ma anche molto peggiore tutto sommato.

La mia storia è la tipica storia del primo della classe, o comunque è così che sono abituato a guardarla. Primo della classe lo sono stato quasi sempre, il tutto senza necessità di grande studio … non ero un secchione; ero anzi piuttosto pigro, ma dall’esterno è facile smarrire la differenza fra una mente efficiente è uno sgobbone, visto che in presenza di accidia della prima i risultati si equivalgono.

Già, una mente efficiente … “una mente”, diceva di me la mia maestra d’Italiano alle riunioni di classe. “Una mente che dovrebbe essere sfruttata meglio”, diceva la mia professoressa d’Italiano delle medie (già, alle medie era successo qualcosa). “Una mente”, diceva di nuovo il professore di lettere al liceo. In effetti se c’è una cosa che ho sempre sentito dentro di me e sempre mi è stata confermata dall’esterno è che nel bene e nel male la mia mente non funzionava esattamente come quella degli altri; era come se avesse una prospettiva diversa. Oggi alcuni test diagnostici alimentano in me il solido sospetto di aver sempre sofferto di una forma di autismo ad alto funzionamento. Ma non mi interessa una diagnosi ufficiale, non saprei che farmene: forse non sono/non ero autistico, ma vi assicuro che se i test diagnostici ti danno come “sospetto”, i requisiti per essere emarginato a scuola ce li hai comunque tutti: comunichi a fatica con gli altri, ragioni a tutto un altro ritmo, spesso non riesci a sintonizzarti su quello che si aspettano da te socialmente ed emotivamente, e non ultimo sarai facilmente considerato “strano”, perché hai interessi molto particolari e diversi da quasi tutti i coetanei, e mostri comportamenti curiosi, che so, tic, stereotipie motorie o simili, che dall’esterno si notano facilmente … Aggiungeteci che grazie alle un po’ troppo amorevoli cure di mia nonna, buonanima, ero anche alquanto sovrappeso. E avevo gli occhiali.

Come dicevo, tutti i requisiti per essere un reietto sociale. E infatti, reietto sociale lo sono stato per parecchi anni: tutte le elementari, tutte le medie, parte del liceo.

Certo, ero anche gay. A posteriori posso dire per certo che l’orientamento sessuale si stava già delineando intorno ai sei anni di età, perché ricordo che mi sentivo stranamente attratto, in forma “proto-sessuale”, dal film “Aladdin”, per via del protagonista, chiaramente (maledetti film Disney, ancora oggi dettano i miei standard estetici!)

Forse c’era in me qualche accenno di bisessualità a quei tempi: il maschio mi colpiva sempre, ma in via eccezionale ero anche attratto da alcuni personaggi femminili vagamente androgini  o mascolini, come Alessandra Martines quando faceva Fantaghirò. Considerando che a quell’età sono quasi tutti un po’ bisessuali, e che io invece ero già abbastanza girato da quella parte lì, a guardarsi indietro oggi era chiaro dove si andava a parare. Ma allora nessuno avrebbe mai pensato che fossi gay, non si vedeva mica nulla da fuori, se non contiamo l’odio viscerale per il calcio.

Reietto sociale per tutta una serie di ragioni, dunque, ma fra di esse non c’era l’omosessualità, perché era come la nebbia: quando c’è non si vede. Alle elementari passavo quasi tutto il tempo da solo, spesso quando stavo con amici me ne pentivo perché a volte senza rendersene conto facevano cose che mi facevano soffrire. Ma in un certo senso è ancora tutto quasi normale.

Guardandomi indietro, potrei dire che della sofferenza c’era durante le scuole elementari, e sicuramente non stavo così bene da poter dire di essere stato molto felice a quei tempi; tuttavia, di quel periodo non ricordo un senso pesante di sofferenza. La sofferenza psicologica vera, insomma, lo stringersi del cuore, l’ansimare, l’impallidire spaventati dal proprio riflesso, il pensiero della morte, non c’erano: il futuro sembrava attraente, il mondo comunque pieno di cose da imparare e da realizzare. C’era un po’ di sofferenza, ma direi una sofferenza “normale” per un bambino un po’ timido e diverso.

Quella là, la sofferenza vera, iniziò alle scuole medie.

Che ero abbastanza diverso s’è capito, no? Ma io non soffrivo per essere diverso, e non soffrivo così tanto neanche del rifiuto dei pari: in effetti, non li avevo mai cercati, i pari, e loro non cercavano me. Accordo perfetto, e io stavo bene da solo, forse meglio. Mi era sempre bastato essere il ragazzino prodigio, non mi interessava condividere il tempo con gente che con me non aveva in comune neanche un interesse o un’idea. Ma alle medie era cambiato qualcosa: i coetanei iniziavano a chiedermi attivamente di essere qualcosa che io non ero, e il prezzo di non esserlo era il disprezzo, concreto e palpabile. Disprezzo costante, attivo, onnipresente.

Dovevo essere volgare, ad esempio; dovevo darmi un sacco di arie; dovevo essere aggressivo; dovevano piacermi gli sport e il calcio … soprattutto, dovevo iniziare a interessarmi alle ragazze. Visto che non facevo nessuna di queste cose, prima ancora che il mio essere ricchione si fosse palesato inequivocabilmente, ecco che ero già diventato ricchione, ricchione, ricchione. Perché l’essere ricchione è un concetto che a scuola i ragazzini ritengono degno di essere sottolineato molte volte, circa ventisette alla settimana secondo alcune stime. Ricchione nemmeno così tanto perché davvero ricchione, ma soltanto perché non facevo quelle cose che si aspettavano che facessi come maschio.

Non ero l’unico a subire questi trattamenti, eh, anzi! Con me erano quasi gentili; gli insulti li sentivo continuamente, ma per fortuna solo una minoranza (significativa) delle volte erano rivolti a me. Non ero io la vittima preferita, quella era un altro ragazzo della classe, un poveretto che non ho mai capito perché se la prendessero proprio con lui. Lo prendevano in giro dicendo che era ricchione. Tutto il giorno tutti i giorni, molte volte al giorno. Con una costanza, con una cura, con un’insistenza inquietanti, pareva si fossero messi in testa di distruggerlo psicologicamente. Spero che non ci siano riusciti, ma il succo non cambia. Era la potenza e la costanza di quel disprezzo a impressionarmi.

“Quello è ciò che fanno a chi non rispetta le aspettative del maschio”, capii. E le aspettative su di me stavano cambiando. Bambino prodigio andava bene finché ero bambino; come ragazzo non bastava che avessi un asessuato cervello prodigioso, volevano anche che fossi maschio, e che lo fossi in un certo modo ben preciso peraltro. Non lo ero, dunque ero alieno e dileggiato. Ma quello era un problema quasi secondario, visto che essere emarginato e preso in giro a scuola non era cosa nuova per me e mi ero già corazzato a riguardo … Capita a molti, ma si aspetta di crescere e che le cose migliorino. Il punto è che non era così solo a scuola: già qualcuno dei parenti e amici di famiglia iniziava a chiedermi se avessi la ragazza; il mondo degli adulti, che mi aveva sempre dato apprezzamenti, ora iniziava anch’esso ad aspettarsi che facessi qualcosa di più che essere un cervellone. Cominciavano ad aspettarsi che mi iniziassero a piacere ‘ste cavolo di ragazze. Cominciai ad aspettarmelo anche io, ma non stava accadendo. E sapevo che, se non fosse accaduto, sarei finito come quel ragazzo che tormentavano fino a rendergli ogni giornata un inferno … Anzi, peggio! Anche fuori da scuola, TUTTI mi avrebbero disprezzato e deriso … tutti. Anche i professori che tanto mi stimavano, anche i parenti, anche i genitori; non avrei più avuto nessuno al mondo.

Perché pensavo questo? Ne avevo ottime ragioni. Tiziano Ferro, nella sua autobiografia, descrive il senso di esclusione e la mancata auto-accettazione sperimentati in gioventù come sviluppatosi autonomamente, senza spiegazione quasi.
Questa è forse l’unico punto debole della sua narrazione: sappiamo tutti che ciò non corrisponde al vero, è un addolcimento, forse dovuto a ragioni editoriali, forse a ragioni personali. Nessuno si convince di essere una specie di mostro indegno di vivere così, da solo; e forse Tiziano Ferro non ricorda come ciò è venuto in essere per lui, ma io ricordo una per una tutte le motivazioni che mi avevano indotto a pensare che essere omosessuale fosse forse la peggiore disgrazia immaginabile sulla terra.

In TV gli omosessuali non esistevano, e quando apparivano erano solo macchiette fatte per far ridere, alla Malgioglio. Nei cartoni animati non c’erano, perché un bacio fra un principe e una principessa è una cosa normale e i bambini la possono vedere, ma un bacio fra due principi sarebbe invece un orrido tentativo pedofilico di sessualizzare i bambini. I matrimoni gay erano menzionati solo nella sezione curiosità e stranezze dei telegiornali, con pronto commento del prelato stronzo di turno o del politico di destra che spiegava quanto la cosa fosse abominevole. Se c’era un gay pride, di esso passavano solo e sempre quelle immagini estreme e provocatorie con pajette e piume di struzzo; e cazzo, io da grande ci sono stato a dei gay pride, so che le piume di struzzo ci sono, ma il grosso della manifestazione è fatto di gente normalissima, e anche quelli con le piume di struzzo in realtà a casa e lavoro e a fare la spesa se le tolgono; questo però in TV non si vedeva mai (proprio come oggi). Quindi i gay tutti gente strana, assurda, immiscibile con la società civile. E ovviamente, anche lì, commenti malevoli di prelati e politici; per il Pride del 2000 si scomodò addirittura il grande capoccia Karol “Santo-Subito” Wojtila, a sparare veleno sugli LGBT. E chi contraddirebbe mai apertamente un simile tenero, gracile, dolce e amorevole vecchietto? Tutti a dargli addosso, porello, all’inerme.

E i genitori? Conservatori e cattolici loro, abbastanza conservatore e cattolico anche io (almeno cattolico ora non lo sono più). Quando si sentiva parlare di omosessuali spesso infierivano.
Mi preme qui sottolineare una cosa: non erano di quelle persone apertamente, fieramente, virulentemente, violentemente, malignamente piene di odio verso i gay; vale a dire, non erano parte di quell’unica categoria di persone che gli omofobi sono disposte a riconoscere come omofobe, cioè quelle che girano con in tasca la spranga per spaccar denti ai gay. Non hanno mai detto, che so, che gli omosessuali fossero da mandare al rogo; non hanno mai difeso la violenza fisica contro gli LGBT, né hanno mai incitato a perpetuarla. Non stiamo parlando di selvaggi assatanati o belve sanguinarie, ma di persone ragionevoli, così tanto che da grande il mio Coming Out è stato accolto piuttosto bene e la mia omosessualità ha smesso molto presto di essere un problema per loro.
Ma a quei tempo l’omosessualità la consideravano apertamente “anormale”, il matrimonio gay restava comunque “una pagliacciata”, il Gay Pride un’oscenità offensiva, e prelati e politici ovviamente avevano ragione a dire peste e corna dei gay, che fosse per loro distruggerebbero la società, corromperebbero i bambini, farebbero tornare i nazisti a cavallo dei tirannosauri eccetera. Insomma, non vogliamo ammazzarli i gay, ma accettarli come persone con piena dignità nemmeno. Per non parlare di che cos’erano quei diavoli come Pannella e Bonino che ne difendevano i diritti, cosa non se ne diceva! E poi le battutine e gli epiteti offensivi verso gli omosessuali, ritenuti una cosa perfettamente normale … “quello lì è gay/ricchione”, segue sorrisetto malizioso. E alla domanda fondamentale, “cosa faresti se tuo figlio fosse gay?”, rispondevano scherzosi: “figurati che importa, basta che non me lo viene a dire!”, oppure, più seriamente “mi dispiacerebbe, ma sarebbe sempre mio figlio”.

Visto? Niente di incredibilmente violento. Gli omofobi attuali questa non la chiamano neanche omofobia, perché se non hai omicidi sulla fedina penale omofobo non puoi esserlo, per loro.

Ma delineiamo un quadro completo di com’era la situazione che vedevo intorno a me, quali erano i messaggi che ricevevo sull’omosessualità:

A scuola si poteva essere offesi e bullizzati continuamente, fino alla demolizione psicologica, non tanto per essere gay, ma anche per il semplice fatto di non essere “abbastanza etero” secondo gli standard stabiliti da chissacchì. Se trattavano male persone accusate solo di non essere abbastanza etero, come avrebbero trattato un gay autentico? Lo avrebbero annientato, evidentemente: basti pensare che a scuola anche le persone che erano considerate il non plus ultra del progressismo cominciavano a fare distinguo quando si parlava di matrimoni ed adozioni. Parliamo della coda della gaussiana della tolleranza, e nemmeno loro erano disposti a concedere davvero l’uguaglianza!
Ma in società, da adulto, sarebbe stato diverso? No, in società sarei stato solo una macchietta, un fenomeno da baraccone; avrei potuto raggiungere le più alte vette dello sviluppo intellettuale, ricoprire i ruoli di più grande responsabilità, curare il cancro o qualsiasi altra cosa; ma se fossi stato omosessuale, alla fine sarei stato sempre e comunque e soltanto un gay, una macchietta di cui ridere o un alieno da emarginare e compatire.
E la famiglia? Un omosessuale non può avere famiglia, perché è solo un essere perverso e anormale, quindi mi sarebbero rimasti solo i miei genitori, e avrebbero pensato anche loro che fossi perverso e anormale, anche se, bontà loro, mi avrebbero comunque considerato ancora un figlio, nonostante un fatale difetto di fabbricazione, con “dispiacere”.

È bene chiarire che i miei genitori non dicevano queste cose con cattiveria. La loro “colpa” era l’ignoranza, ma anche qui ci metto le virgolette. Certo, si potrebbe arrabbiarsi con loro e rimproverarli, dirgli che non puoi dire ad un ragazzino che “se fosse gay ti dispiacerebbe”, perché magari gay lo è davvero, e tu sei una delle persone più importanti della sua vita, e già intorno a lui tutti gli fanno capire che non lo accetteranno, dunque gli causi un trauma pesante. È vero, è così.

Ma ai miei genitori chi gliele spiegava queste cose? Non l’avevano certo studiato all’università. In TV non glielo diceva nessuno. In chiesa e su Famiglia Cristiana gli dicevano il contrario, e cioè che anzi il figlio gay bisogna subito correggerlo e mai accettarlo così com’è; bisogna traumatizzarlo e farlo sentire sbagliato, per il suo bene, capito? In più nessuno gli aveva spiegato che i gay non portano il cartellone luminoso sulla testa e non sono tutti effeminati e vestiti con piume di struzzo, quindi non potevano neanche contemplare l’ipotesi che io potessi essere gay, e che quelle cose che sentivo potessero farmi star male.
Chieder loro di immaginare e studiare tutto questo autonomamente sarebbe stato chiedergli molto di più di quello che normalmente un buon genitore fa e che ci si aspetta da lui, ed è per questo che non li ho mai rimproverati. Dato il background tremendo, direi che la loro reazione è stata eccezionalmente buona … Come si dice, la vita prima ti fa l’esame e poi la lezione, e con loro ha fatto così.

Ma, ad esempio, i media, invece, avrebbero potuto essere d’aiuto; avrebbero potuto fare informazione corretta, invece mandavano in onda prelati stronzi e piume di struzzo. La scuola avrebbe potuto aiutare, ma il pericolosissimo GIENDER!!1! non esisteva ancora, ed esistevano invece professoresse di religione che ciarlavano di cure per l’omosessualità. Quindi il mondo che mi veniva incontro mi diceva chiaramente e senza possibilità di fraintendimento che se fossi stato omosessuale non mi avrebbe mai voluto.

E io potevo farcela a fare a meno di essere amico di un branco di ragazzini rincoglioniti dalla pubertà, ma non potevo sopportare l’idea che tutto il mondo mi avrebbe disprezzato e schifato. Quello era terrificante.

E allora eccola: ora stavo conoscendo la sofferenza vera. Ora tutti iniziavano a chiedermi di essere diverso da com’ero, anche coloro che non volevo a nessun costo deludere. Iniziavo a stare segretamente male. Quando ricordo quel periodo, mi sembra quasi un sogno assurdo in cui ogni tanto emergono i momenti più terribili. Ricordo ad esempio un giorno mentre ero solo per strada sotto casa, e il mondo intero sembrava come ritrarsi da me: l’avete mai provato? Un senso di dissociazione, non è facilissimo da descrivere. Avete un albero accanto, l’albero c’è, eppure non c’è, è alieno, non è parte dello stesso mondo in cui siete voi. Nemmeno la natura stessa ti vuole, nessuno può far nulla per te: hai dodici anni, e sei solo al mondo, perfino l’albero, la siepe, l’asfalto, si ritraggono dal tuo universo e ti dicono “cavatela da te adesso”.

Ma nonostante adesso mi senta dare del “voi omosessuali lagnosi” da bravi borghesi eterosessuali col culo caldo, io non sono mai stato il tipo da subire i problemi senza cercare una soluzione.

Ok, non ero “abbastanza etero”. Come affrontare il problema?, mi cheidevo.

Dunque, mentre il mondo mi diceva che ormai ero solo e che se non mi fossi “aggiustato”, e pure presto, mi avrebbe distrutto, io immediatamente iniziai a pensare a come potevo cavarmela da quella situazione, e da solo: dovevo aggiustarmi, o quanto meno trovare conferme di essere già a posto. Inghiottii la paura e cercai attivamente di vedere qualcosa di interessante nelle ragazze, e a fingere timidamente che mi interessassero. Molte erano simpatiche. Molte erano graziose. Ma eccitante, dopo Fantaghirò che lo fu quanto poteva esserlo per un bambinetto, non lo fu mai più nessuna.

Avevo paura, ma mi confortavo da solo: ok, non riuscivo a farmele piacere, ma sarei diventato “normale” comunque, prima o poi. Ero solo un po’ in ritardo, sarebbe successo da sé. Doveva accadere ancora qualche evento determinante, un’epifania, qualcosa che mi avrebbe fatto capire tutto, tipo che cavolo ci trovassero gli altri nelle ragazze.

E accadde l’evento determinante, ma non come volevo io. In età forse un po’ tardiva arrivò la prima polluzione notturna in piena regola. Sognando un maschio.

I miei genitori ricordano che in quel periodo sembravo perfettamente normale, eccetto per un dettaglio: stavo perdendo i capelli. Mi si stavano formando in testa delle piccole macchie calve. Il dermatologo fu un po’ sorpreso, perché sono causate da alti livelli di stress, di solito succede a padri e madri di famiglia, per via delle responsabilità, della gestione della famiglia, del lavoro … non normale in un tredicenne, insomma, secondo lui. Evidentemente “studiavo troppo” o “ero troppo perfezionista”. I genitori invece attribuirono il disagio a certi problemi che stavamo avendo in quel periodo, ma la realtà era un’altra: i sogni si ripetevano ormai da un bel po’, e le ragazze non vi comparivano mai.

E la cosa era diventato un peso micidiale.

Ogni volta che avevo un pensiero eccitante ne ero terrorizzato, mi sentivo malato; mi piaceva ma al contempo lo odiavo perché per causa sua la società mi avrebbe espulso da sé, e cercavo di gettarmelo alle spalle e dimenticarlo; l’idea del piacere sessuale prese a farmi schifo, perché sapeva di fuga, terrore e solitudine. Ogni notte speravo di avere un altro di quei sogni, ma ero terrorizzato all’idea di averlo per via di quello che significava per il mio futuro. Ero in uno stato di ansia quasi continuo, ma ovviamente mostrarlo avrebbe significato doverne dare spiegazioni, e non potevo. Allora lo trasformavo in irritabilità, antipatia verso tutti, calo delle prestazioni a scuola, e ovviamente perdita dei capelli. Ora sapevo la mia situazione, e dopo quello che avevo visto e sentito intorno a me, ai miei occhi era semplicemente tragica. C’erano solo due cose che potevo fare per evitare di essere abbandonato e odiato  da tutti:

La prima, provare ad essere etero. Provare a corteggiare qualche ragazza. Ok, non riuscivo a trovare qualcosa che mi attraesse nelle ragazze, ma magari andando oltre nella conoscenza … Sembrando etero, magari sarei diventato etero.

La seconda, nascondere tutto ad libitum, nella speranza lontanissima di diventare un giorno, magicamente, eterosessuale.

Il primo tentativo andò a rotoli subito. Non sono un gran corteggiatore di mio, non sono socievole e mi costa una fatica enorme approcciare le persone. Figurarsi se potevo riuscire a corteggiare con l’impegno necessario qualcuno, senza lo sprone di un interesse autentico. Fortuna che è andata così, ci siamo evitati di avere in giro un’altra povera moglie col marito frocio.

Niente, la parte dell’eterosessuale funzionante proprio non riuscivo ad approcciarla; non sarei mai riuscito a diventare un padre di famiglia tradizionale, e nemmeno a fingere in maniera credibile. Non restava che nascondere tutto in qualche altro modo, ma come non far insospettire nessuno, visto che non riuscivo proprio a provare niente di niente per le ragazze?

Una strada c’era: tornare a quello che aveva sempre funzionato, il bambino prodigio. E un bambino prodigio, stando allo stereotipo, diventa un adulto pazzoide. Avevo sempre quella carta, potevo sembrare un genio pazzoide troppo strano per sposarsi. Credibile, no? Strambo, diverso, pazzoide, zitello acido, pensate pure tutte queste cose di me … ma almeno non pensate che sia omosessuale, non trattatemi come trattate gli omosessuali, non dite di me quello che dite degli omosessuali. Il cervello per fare la scena del genio c’era; un po’ di stramberia c’era pure, bastava coltivarle all’estremo e il gioco era fatto. Spegnere le emozioni: fin troppo facile, lo avevo sempre fatto.

La sceneggiata del genio pazzoide troppo strano per accoppiarsi sembrò funzionare. Qualcuno più sveglio subodorava qualcosa, ma i più sembrava se la stessero bevendo. Gli anni del liceo e il primo anno di università trascorsero quasi tranquilli e senza cambiamenti; la sofferenza vera, quella che ti toglie il respiro, se ne andò. Più in là, invece, ci fu il Coming Out, ma questa è un’altra storia e si dovrà raccontare un’altra volta. Nel frattempo iniziai a stare meglio, e questo non deve sorprendere. Chi soffre di Asperger o disturbi imilari passa di solito tutta l’infanzia ad elaborare meccanismi compensatori per le proprie difficoltà, e spesso arriva all’età adulta con un buon livello di funzionamento. Arrivato al terzo anno di liceo, stavo cominciando a capire i rituali sociali, a integrarmi in un gruppo, a farmi degli amici. Non ero più neanche sovrappeso. In più, la mia strategie del nascondere la polvere sotto il tappeto stava dando frutti. Se leggete qualche storia di “ex-gay”, ma anche di ex-ex-gay (la maggioranza), noterete che un po’ tutti dichiarano che inizialmente la terapia riparativa, ovvero la negazione dell’omosessualità, migliorò la loro vita. Se ci pensate, è ovvio: scopri che puoi fingerti “normale”, e rispetto al terrore e all’isolamento che sentivi di fronte alla diversità, è un progresso. Sei un mostro, se qualcuno lo scoprisse sarebbe la rovina per sempre; ma realizzi che puoi fare in modo che non lo scopra nessuno. Ovvio che stai meglio lì per lì.

Ma da una prospettiva più alta e completa, cosa sono stati davvero quegli anni di calma apparente? Questo: mentre gli altri ragazzi facevano le proprie esperienze e vedevano di fronte a sé una vita piena di speranze, io avevo come prima preoccupazione della mia il tenere su una scena credibile di genio pazzoide e asessuato: provarci con qualche ragazza ogni tanto, farmi rifiutare per il mio corteggiamento patetico e passare per un comune etero sfigato. Meglio etero sfigato che omosessuale: come etero sfigato qualcuno che ti apprezza sai che c’è, ma non sai che c’è qualcuno che ti apprezzerebbe come omosessuale, se nessuno te lo dice … e nessuno te lo diceva mai, perché a quei tempi la minaccia del terribile GIENDER!!1! ancora purtroppo non era sorta. Insomma la mia massima aspirazione dell’esistenza era passare per sfigato cesso indesiderabile.

Ed è qui che nel frattempo si materializzò chiaramente, per la prima volta, il pensiero della morte.

Non mi ero mai posto l’idea della morte come di una cosa che … diciamo … potesse concretamente accadermi. Cazzo, a sedici anni non pensi alla morte, a meno di chiamarti Søren Kierkegaard. Ma io leggevo i filosofi (sì, anche Kierkegaard) e sempre più trovavo argomentazioni filosofiche convincenti in favore dell’inutilità e vuotezza della vita. Dopotutto sapevo già come sarebbe stata la mia: una vuota messinscena, giorno dopo giorno e ora dopo ora. Sarei morto grigio e spento dopo una vita grigia e spenta con addosso quella maschera del cazzo. Non avrei mai provato né l’amore né la famiglia. E che beffa! Se anche la scena avesse funzionato a perfezione, se anche nessuno avesse mai sospettato il mio segreto, comunque mi avrebbero guardato con commiserazione come una specie di handicappato che ha fallito una parte importante della propria vita. Ok, non mi avrebbero disprezzato e allontanato come un omosessuale, il che era già un miglioramento; ma comunque era una gran brutta prospettiva. Che senso c’era in questo? Iniziai a pensare che morire sarebbe stata un’esperienza indifferente o forse positiva. Deo gratias, la lettura di Sant’Agostino mi aveva almeno guarito dal Cristianesimo; basta col problema di dover far contento, oltre a tutti gli altri, pure Dio; almeno lui l’avevo messo via. Quindi la morte pareva vuota come la vita, ma molto meno faticosa.

Il pensiero della Morte è arrivato allora, e purtroppo lui non se n’è mai più andato, anzi … Ma anche questa è un’altra storia.

Mentre io meditavo su che esperienza liberatoria o al più indifferente fosse la morte, gli altri avevano iniziato a conoscere il sesso e l’amore gradualmente durante l’adolescenza, e intorno il mondo intero li guardava sorridendo con loro. Io stavo nell’angolo a nascondermi il più possibile. E neanche si può dire “eh, ma tu mi dici che sei autistico o quasi, sarà per quello che stavi male” … Aggravante, sì, ma conosco molto bene i pensieri che mi agitavano e non riguardavano quello; dopotutto, come già accennavo, ormai a metà del liceo avevo iniziato a superare i miei limiti. È praticamente certo che, se fossi stato etero, avrei cominciato a esplorare la sessualità forse un po’ in ritardo, forse con qualche difficoltà e rifiuto, ma serenamente. Invece rimasi completamente bloccato (o perfino in involuzione) nella mia raffinata menzogna fino a diciannove anni, quando un crollo nervoso totale mi obbligò all’alternativa fra fare i conti con me stesso o finire in camicia di forza. Sicuramente me la son sbrigata prima in questo di tutti quelli che si son liberati a trenta, o quaranta o cinquant’anni. Ma comunque molto tardi rispetto a qualsiasi eterosessuale sano e normale, e con anni di esercizio a mantenere l’immagine del genio pazzoide adagiati sulle spalle … e sapete cosa vuol dire costruirsi laboriosamente una certa immagine di sé per anni? Che diventa una specie di seconda pelle, che non te ne sbarazzi più facilmente, da un giorno all’altro.

Quegli anni bruciati ancora oggi mi fanno male. Non era più tempo per me per fare come gli altri, per stringere timidamente una mano in un cinema, per nascondersi a baciarsi in un parco all’uscita da scuola. Quello era andato, andato per sempre. Non mi sarà restituito, dunque non resta che andare avanti e vedere se almeno quello si riesce a farlo.

Penso che si possa fermarsi qui: questa storia non ha ancora un lieto fine, né uno mesto. Nemo ante mortem beatus, ma anche nemo ante mortem miser. Gli strascichi di tutto questo sono ancora lì, si riflettono nel rapporto con la sessualità e con l’amore, ma spero che un giorno spariscano e riesca davvero ad andare avanti.

Nel frattempo leggo su internet che l’omofobia non esiste o che non è un problema, perché un po’ tutti alla fin fine passano l’adolescenza a pensare alla morte e a nascondere chi sono per paura di essere abbandonati da tutti coloro che amano, è normale! Se cito il mio rapporto problematico con l’idea della morte, mi becco del “lagnoso”, perché a quanto pare quando si discute della vita e dei problemi degli omosessuali quello che è accaduto nella vita di un omosessuale è fuori tema. Si deve parlare solo ed esclusivamente di questioni astratte e filosofiche tipo “la sacralità del matrimonio” e la “differenziazione dei sessi”: la vita reale delle persone LGBT non c’entra un cazzo (se non magari quando si tratta di sfruttarla biecamente per violarne l’intimità e la sensibilità).

Ma vediamo un lato positivo: finalmente iniziano ad esser proposte delle iniziative atte a rendere l’ambiente scolastico più accogliente e consapevole per gli LGBT, e questo è importante perché può offrire loro quella sponda, quelle informazioni e quelle rassicurazione che spesso non ricevono da nessuna parte. A me personalmente tutto ciò non serve più a niente, perché il calice mentre ero a scuola l’ho bevuto fino alla feccia; ma mi consola pensare che forse oggi qualcuno avrà esperienze migliori. O almeno, mi consolerebbe, se non sapessi che ci sono gruppi organizzati, danarosi e soprattutto mostruosamente pervicaci, che si sono dati come scopo per l’esistenza di ostacolare ogni iniziativa che potrebbe migliorare le vite degli omosessuali.

E volete sapere quale ultima beffa mi è stata riservata qualche anno fa? Sentire a una cena un ragazzino del liceo dire che “lui preferirebbe un figlio normale”. Figuratevi, niente di grave, non lo sapeva di me e a quell’età i ragazzini ragionano tutti col culo; semplicemente nessuno gliel’aveva detto, e ripeteva quello che aveva assimilato dai compagni a scuola. Ma giusto per chiarirmi che se al liceo ci stessi andando in questi anni invece che dodici anni fa, sarebbe stata la stessa identica cosa: dodici anni di lotta per sentire ancora dire ai ragazzi cose tipo “i gay fanno vomitare”.

Si era iniziato parlando di emozioni, finirà con le emozioni. Sono due: la prima è la tristezza. Sentire gente affermare, o credere, che “l’omofobia non esiste” e che “gli omosessuali stanno bene” mi fa veramente tristezza. Vedere anche queste persone ottenere vittorie politiche mi getta poi veramente nell’ansia e nello sconforto, è una specie di tonfo al cuore. Ai bugiardi e ai viscidi, penso che forse è davvero a gente così che appartiene il mondo. Ok, sì, prima o poi li metteremo da parte questi soggetti, ma quanta gente avranno fatto soffrire frattanto? Quante vite avranno distrutto o danneggiato?

E mi piacerebbe che la tristezza che sento in quei momenti fosse utile, nel senso, che scatenasse il desiderio di migliorare le cose nel prossimo.
Il professore di benessere animale ci disse a lezione che se abbiamo sottoposto un ratto ad anestesia, ma non abbiamo dovuto fare operazioni pesanti, la cosa migliore che possiamo fare per aiutarlo a riprendersi in fretta è rimetterlo immediatamente in gabbia con gli altri appena si sveglia, senza ulteriori trattamenti riabilitativi. I ratti sono animali sociali; sentiranno il suo corpo un po’ più freddo per via dell’anestesia, e avvertiranno che ha un odore diverso. Lo copriranno col proprio corpo per scaldarlo e ci si strofineranno contro per ridargli il proprio odore e riaccoglierlo nel gruppo, aiutandolo a riprendersi molto meglio di qualunque tappetino riscaldante. “Forse l’uomo non è sociale quanto i ratti”, ha commentato lui, ma per fortuna ha torto: l’uomo è molto più sociale dei ratti, solo che si sottopone ad un costante allenamento, frequentemente coronato da successo, per sopprimere questo lato di sé. Quindi ecco un’altra ragione per cui parlo poco della mia storia: mi è capitato che qualcuno ci infierisse sopra, com’è accaduto ad esempio con una signora protestante evangelica conosciuta alcuni anni fa, rimastami impressa per sempre perché si abbassò a infierire sulla mia depressione nel tentativo di convertirmi. Chissà se sarebbe contenta di sapere che è rimasta per sempre fissata nella mia memoria come l’emblema supremo della miseria morale ed umana. Meglio i ratti che questo tipo di persone, MOLTO meglio.

Ed è qui che interviene la rabbia. La rabbia di sentir dire a bugiardi e viscidi capaci di qualsiasi bassezza che loro “proteggono i bambini”. Adinolfi ha fatto pure la sceneggiata offesa quando qualcuno di noi si è permesso di far notare che quasi tutti quelli che sono andati al Family Day eccetto i preti hanno dei figli, e che un 5-10% circa di quei figli saranno gay, il che significa che più o meno l’1.5-3% dei bambini al family Day mediterà il suicidio per via delle azioni dei propri genitori; pare che Adinolfi abbia due figlie, e dunque ha detto che “gli auguriamo il lesbismo” (qualcuno gli spieghi che il lesbismo non è il cancro). Ora considerando che almeno metà dei presenti a starci stretti erano bambini trascinati lì dai genitori, abbiamo un 1.5-3% di 75000, ovvero 1125-2250 bambini che più in là cadranno in depressione (che per chi avesse ancora bisogno di delucidazioni in proposito, è una malattia psichiatrica invalidante) e prenderanno seriamente in considerazione il suicidio per questo motivo. No, non auguro ad Adinolfi che le figlie siano lesbiche. Non che sarebbe un cattivo augurio per lui, anzi: una figlia lesbica lo renderebbe probabilmente una persona migliore; ma augurare ad Adinolfi una figlia lesbica significherebbe augurare ad una lesbica un padre Adinolfi, e capite bene che questo invece sarebbe molto crudele. Mi piacerebbe dunque che nessun gay al mondo avesse genitori da Family Day, ma purtroppo  è un augurio statisticamente impossibile a realizzarsi. Avremo un 4000 genitori che lì stavano in piazza a manifestare contro la felicità e il benessere dei propri figli, e che regaleranno loro una bella curetta (a vita?) di paroxetina, se non esiti peggiori. Quindi quali bambini stanno proteggendo, e da cosa? La verità è che si stanno invece facendo gravi e radicali violenze psicologiche a dei bambini. Usare i bambini come arma per fare del male ai bambini. Oddio, più ci penso più lo stomaco mi va in subbuglio, meglio smettere.

Ora, io non ho rimproverato i miei genitori, perché non sapevano. Ma possiamo dire la stessa cosa dei genitori del Family Day?

Sì, per molti di essi possiamo. Ma allora bisogna che sappiano. E come mi ha detto un’amica, “ogni storia è utile, anche quelle senza lieto fine”.



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