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"La Mia Storia" di Kamala Das, edito da Il Punto d'Incontro, Collana Donne in Corsivo, 2007, €13,90
La poetessa ed attivista americana Muriel Rukeyser una volta disse: “Cosa accadrebbe se una donna dicesse la verità sulla propria vita? Il mondo si spaccherebbe in due”. Quello che Muriel Rukeyser ravvisava era l’inenarrabilità dell’universo femminile nei confronti di una narrazione che per secoli era stata solo maschile. Leggendo quest'autobiografia di Kamala Das, una delle maggiori poetesse indiane, si ha proprio la sensazione che con un semplice atto di sincerità femminile il mondo debba spaccarsi, facendo uscire dalle viscere della terra demoni su demoni. Quando questo libro venne pubblicato, infatti, la società indiana si scandalizzò nel leggere di questa donna senza peli sulla lingua che parlava liberamente delle sue relazioni extraconiugali e delle sue cotte lesbiche di adolescente. A leggerlo oggi, l’effetto prorompente di questo libro è un po’ smorzato dalle orde di donne che in anni recenti hanno fatto del sesso e del vizio il soggetto dei loro libri, persino nell’India bacchettona (vedi Shobhaa De, che io per altro non ho letto ne ho intenzione di leggere, non perché sono bacchettona ma per lo stesso motivo per cui non leggo Sophie Kinsella!). Kamala Das non ha mai rivelato se il contenuto della sua autobiografia fosse la pura verità o il risultato del desiderio di avere una vita diversa (un dilemma che mi fa pensare all’autobiografia della scrittrice neozelandese Janet Frame). La prefazione scritta da K. Satchidanandan (io ho un’edizione indiana del libro) dice che “la scrittrice, maliziosamente enigmatica, ha tormentato i lettori disseminando indizi contradditori, prima confessando che si trattava della sacrosanta verità e poi dichiarando che non era altro che una fantasia appagatrice, una vita alternativa che si era creata per se stessa" (p.vii, traduzione mia). Kamala Das ha avuto una vita apparentemente normale: nata a Malabar, in Kerala, fu costretta a trasferirsi continuamente per seguire il marito e la famiglia, prima a Calcutta, poi a Bombay e in altre città indiane. In questo libro denuncia la fobia della comunità Nair (la casta di proprietari terrieri a cui appartiene) verso il sesso e l’intimità (“Non c’è da meravigliarsi se le donne delle migliori famiglie Nair non nominavano mai il sesso. Era la loro principale fobia. Lo associavano a violenza e spargimenti di sangue. Erano cresciute con le storie di Ravana morto a causa del suo desiderio per Sita e di Kichaka, che era stato fatto a pezzi dal marito legittimo di Draupadi solo perché la desiderava”, p.23) e la durezza e stupidità di certi uomini (di un leader studentesco di cui si era innamorata scrive “Provai a mettermi dei fiori tra i capelli. Ma tutto quello che disse fu che senza perdere altro tempo dovevo cominciare a leggere Marx e Engels”, p.61).Il libro è pieno di poesia, ma la prosa lineare è spesso migliore delle vere poesie all’inizio di ogni capitolo. L’autore della sopraccitata introduzione riporta un passaggio della prima edizione del libro, scritta in Malayalam: “Mi piace chiamare questa poesia anche se le parole perdono musicalità quando, dopo aver sollevato al mio interno una bella turbolenza liquida, arrivano in superficie nella forma relativamente solida della prosa. Avevo sempre bramato la forza necessaria a scrivere questo libro. Ma la poesia non matura per noi, noi maturiamo abbastanza per la poesia” (p.viii). Quando l’autrice si sofferma sulla propria vita quotidiana, il racconto si fa vago: è la storia semplice di una donna che scrive poesia o racconti nel tempo libero, dopo aver messo a letto i bambini. Non menziona mai, se non una volta di sfuggita, gli altri scrittori importanti che conosceva, perciò il libro non si legge come il racconto della vita scintillante di una scrittrice famosa, ma la storia di una donna irrequieta, che si sentiva molto sola e che bramava un amante che potesse renderla felice e soddisfare i suoi appetiti sessuali ed intellettuali. Siccome il libro è stato pubblicato nel 1973 e poi in un’edizione rivista in inglese nel 1988, non vi si menziona l’elemento forse più controverso della vita di Kamala Das: la sua conversione all’Islam, avvenuta nel 1999, e il successivo pentimento.Se qualche volta alzavo gli occhi al cielo per la serie infinita di amanti, reali o immaginari, sciorinati nel libro, non vedevo l’ora di leggere le parti dove la poetessa riflette su che cosa significa essere una donna, una madre ed una scrittrice in una società conservatrice. Finisco con una delle considerazioni più impressionanti di Kamala Das: “Dovunque uno scrittore vada, la sua notorietà lo precede. I non-scrittori di norma non si fidano degli scrittori. Questo succede perché sono interamente diversi salvo in apparenza. Essendo la mente un arto invisibile, non è preso in considerazione. Persino gli uccelli hanno le loro altezze particolari. Gli uccelli di terra che non si alzano nel cielo solitario, spesso si chiedono perché le aquile volino in alto, perché girino sempre in tondo come ballerine. L’essenza dello scrittore elude il non-scrittore. Tutto quello che lo scrittore lascia trapelare per questa gente sono le stranezze del vestire e gli eccessi emotivi. Infine, quando i muscoli della mente hanno racimolato abbastanza potere da leggere i pensieri segreti della gente, lo scrittore rifugge l’ostilità invisibile e si avvinghia ai suoi tipi affini, quei sognatori, nati con un frammento di ala ancora attaccato ad una spalla” (p.169-170).
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