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Lasciarsi alle spalle il lavoro mastodontico di “Baaria”, consapevole di non essere riuscito a raggiungere le aspettative qualitative anteposte e di non esser rientrato neppure della cospicua somma investita (oltre i venticinque milioni di euro), non era affatto compito agevole, considerando, altresì, il peso che ciò gli avrebbe comportato per la realizzazione di ogni progetto a seguire.
La prima azione da fare allora era rialzarsi da terra e riprendere a camminare, sapendo che ora davanti a lui non avrebbe trovato più la solita disponibilità e fiducia ma solamente paura e molta diffidenza. Sensazioni, se vogliamo, che il regista siciliano ha portato con sé fin dentro a “La Migliore Offerta”: opera definita da lui personalmente come una storiellina schematicamente elementare nata dall'unione di due soggetti che da anni stava cercando di sviluppare singolarmente ma che invece, solo quando sovrapposti tra loro, hanno trovato all'istante la strada per diventare sceneggiatura pronta per il cinema.
Di sicuro il modo in cui è stata poi lavorata questa sceneggiatura, come è stata arricchita e, da un certo punto di vista, perché no, “gestita”, portano le premesse per un indiscusso rilancio non solo a livello nazionale per Tornatore. Geoffrey Rush, Donald Sutherland e Jim Sturgess sono nomi di un certo livello (specie i primi due) e la misteriosa storia di un battitore d’asta rigoroso e alienato dal mondo che perde la testa per una ragazza affetta da agorafobia che desidera vendere le opere della sua famiglia senza mai uscire dal suo rintanato spazio segreto, fornisce quell'impronta a metà fra mistero e thriller che incuriosisce e trascina. Ma “La Migliore Offerta”, sebbene possa sembrare al termine unicamente una storiellina melodrammatica, non esaurisce le sue virtù così velocemente dopo la sua (non) risoluzione: i paralleli allestiti tra arte e umanità (intesa anche come sentimenti) che si scontrano, abbracciano e respingono in continuazione, restano scolpiti e muovono la mente dello spettatore oltre il processo compiuto dalla parabola del protagonista Virgil.
Quello di Tornatore è un film imperfetto, che si permette il lusso di stimolare vari argomenti senza magari prendersi la briga di approfondirli tutti, lasciandoli però li, a galla, a discrezione dello spettatore, che può continuare a scrutarli come a ignorarli. Ne deriva una pellicola solidissima nella sua prima parte ma anche parecchio frammentaria nella seconda, quando inizia a soffrire il bilanciamento della scena che passa dall'essere occupata esclusivamente dal personaggio di Rush all'essere condivisa assieme al personaggio della venditrice astratta interpretata da Sylvia Hoeks. Poiché è proprio lo svelare il mistero, l'abbattere quel muro tenacemente innalzato, a dissaldare ciò che era stato prima il collante principale dell’intera giostra: l’ambiguità, provocando quindi dei segni di cedimento, che per fortuna pur percepiti costantemente, riescono sempre a venire schivati.
Miscelando thriller e melò Tornatore fatica perciò a trovare il modo di rendere la sua (doppia) opera un composto omogeneo. Gli riesce meglio seminare briciole di messaggi, alcuni elementi che a una prima visione rimangono incompiuti ma che, se riesaminati col senno di poi, potrebbero trovare uno scopo ben preciso. Eppure la pellicola - con più di qualche difetto - convince, e gran parte del merito è da attribuire ad un Geoffrey Rush eccellente che riesce a staccarsi dallo schermo e a rendere il suo Virgil da automa a essere umano, con tutto ciò che questo gli comporta in termini di sofferenza e di emozioni.
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