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La ‘mistica’ dei beni comuni

Da Femminileplurale

“tutti i più ridicoli fantasticatori che nei loro nascondigli di geni incompresi fanno scoperte strabilianti e definitive si precipitano su ogni movimento nuovo persuasi di poter spacciare le loro fanfaluche. D’altronde ogni collasso porta con sè disordine intellettuale e morale. Bisogna creare uomini sobri e pazienti, che non disperino dinanzi ai peggiori orrori e non si esaltino ad ogni sciocchezza.” A. Gramsci

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Cosa significa ‘beni comuni’?

L’espressione ‘beni comuni’ è entrata a far parte del linguaggio quotidiano della politica. Si tratta in effetti di un’espressione molto bella, che sembra richiamare ideali di comunità e fratellanza, di pace e armonia. Rientra pienamente nella categoria di quelle espressioni che hanno il fascino dell’evocazione: sembrano rimandare all’immagine di mondi diversi, mondi migliori.

C’è senza dubbio bisogno di parole nuove che, di fronte alle macerie della politica che ci troviamo di fronte, siano in grado sia di dare una direzione sia di mostrare dove si vuole arrivare.

L’espressione ‘beni comuni’ è in grado di farlo, può davvero essere fondativa di un modo nuovo di fare politica, oppure è solo un’altra di quelle parole d’ordine, parole vuote, priva di una concreta capacità trasformativa?

Per rispondere a queste domande dovremmo abbandonare il comodo e superficiale terreno della pura astrazione (restare sul piano della pura astrazione, contrariamente a quanto si pensi, è molto più semplice del tenersi ben saldi sul piano della concretezza…) e chiederci: cosa vuol dire davvero ‘beni comuni’? qual è il suo contenuto concreto, al di là della forma di un’espressione che immagina un mondo diverso?

Occorre fare uno sforzo e scendere in profondità nella realtà che ci circonda e nel suo sistema politico, e rifiutare, contemporaneamente, la prospettiva comoda di perdersi negli alti spazi di utopie politiche che mai diventeranno realtà.

In nostro soccorso arriva il libro di Ermanno Vitale, dal titolo “Contro i beni comuni”, un libro che scende nei dettagli della nascita di questa espressione, la sua genealogia, delle sue applicazioni concrete, e delle sue effettive possibilità trasformative. La prospettiva da cui muove il libro converge con quella dei sostenitori dei ‘beni comuni’ per ciò che riguarda la critica all’attuale sistema politico; sottesa a tutta l’argomentazione sta infatti una critica radicale contro l’attuale tendenza alla ‘privatizzazione del mondo’.

Parole d’ordine, parole vuote

È proprio da qui, dalla necessità e urgenza di una limitazione agli strapoteri del mercato che Vitale sviluppa la sua critica contro l’ ideologia dei ‘beni comuni’ e i suoi fautori.

L’analisi si muove su due livelli: da un lato sull’infondatezza e superficialità della teoria in sé. Quando poi essa tenta di scendere nei dettagli e farsi più concreta essa mostra degli aspetti  oscuri e ambigui e, spesso, in evidente contraddizione con gli stessi enunciati generali. Nel momento in cui, facendo riferimento ai fautori del benecomunismo (in particolare Mattei e Negri-Hardt), ci chiediamo cosa siano davvero i beni comuni, quali siano, a chi siano comuni, chi sarebbe ad amministrarli, abbiamo delle risposte che, nel migliore dei casi, sono superficiali, nel peggiore, infondate, disorganiche e contraddittorie.

‘Beni comuni’ sembra essere, in effetti, qualunque cosa: informazione, università, rendita fondiaria, lavoro, patrimonio culturale, l’aria, l’acqua, i frutti della terra, il linguaggio, gli affetti e le espressioni umane, insomma, sintetizzando, tutto ciò di cui, come si sostiene, le ‘moltitudini’ avrebbero necessità…

E chi dovrebbe amministrare i beni comuni? Lo Stato, seguendo il pensiero dei suddetti autori, no di certo. Ma chi? E in che forma? Rispondere a tale questione rappresenta uno snodo centrale per mettere in luce il tipo di politica che si vorrebbe realizzare. Come abbiamo osservato, infatti, quasi tutto diventerà bene comune: chi avrà il potere enorme di amministrare questo tutto?e come avverrà concretamente la partecipazione? Se si resta ai proclami generali, tutto questo è ammantato da un pesante velo di oscurità.

La mistica dei beni comuni e i suoi discepoli

Per comprendere quale sia la concreta direzione che vorrebbero prendere i difensori dei ‘beni comuni’, e che li fa diventare “il peggior nemico di un costituzionalismo che sappia porre limiti alle pure logiche del profitto” (p. XI), occorre prendere in esame i loro riferimenti concreti, gli esempi che utilizzano e poi dedurne le conseguenze.

Il primo riferimento è quello a Elinor Ostrom e al suo, oramai celeberrimo, Governing the commons. Attenendosi però a quanto sostenuto in questo testo, il ‘comune’ non sembra altro che “una struttura di maggiore protezione della proprietà privata (…) come la gestione condominiale di un caseggiato” (p. 13). Le istituzioni intermedie che l’autrice delinea come tutela e governo dei beni comuni sono forme di amministrazione di super-proprietà che sono guidate dalla logica della maggiore efficienza e non colpiscono in nulla le logiche del profitto.

Il secondo riferimento dei ‘benecomunisti’, preso in esame dall’autore, è quello alla costituzione dell’ Equador. Anche questo riferimento appare poco compatibile con quelle che dovrebbero essere le intenzioni e visioni dei difensori dei beni comuni. A parte il carattere mistico-religioso del preambolo, che già dovrebbe destare qualche allarme, l’incompatibilità più grande si mostra nel suo essere, in realtà, una costituzione in cui lo Stato centrale ha un peso enorme. Ciò si rende evidente, da un lato, a partire dal fatto che i beni comuni come l’acqua e la terra sono alla fin fine dei beni nazionali, ma anche dall’enorme potere che viene affidato al Presidente della Repubblica, designando quella che si può definire, una ‘paramonarchia‘, con l’indebolimento del parlamento che ciò necessariamente comporta. Più che una democrazia partecipativa, sottolinea Vitale, ci troviamo di fronte ad una democrazia plebiscitaria, con tutto quello a cui questo termine storicamente rimanda.

Un altro riferimento è quello fornito da Mattei nel suo rimando all’immagine dell’alveare (“l’alveare non si riduce alla forma algebrica delle api ma comprende anche le relazioni tra le diverse componenti (operaie, guardiane, regina ecc ) quelle tra il gruppo e i beni (nido) e prodotti (miele)” U. Mattei, Un manifesto, p. 28). Come ben sottolinea Vitale, ci troviamo di fronte ad una dimensione non solo olistica e organicistica ma soprattutto fortemente gerarchica. “L’alveare” ci dice l’autore, “è il modello di una comunità naturale militarmente organizzata” (p. 42). L’immagine dell’alveare è quella di una struttura rigidissima, in cui avviene sì una forma di partecipazione di tutti, ma in cui ciascuno è incasellato in un ruolo specifico, gerarchicamente suddiviso. Senza dubbio qui c’è effettivamente partecipazione, ma si tratta di una partecipazione che non ha nulla a che vedere con la libertà

L’immagine dell’ alveare suscita un’ulteriore domanda, ovvero, che fine ne è della possibilità del conflitto? Qual è il suo spazio all’interno di una comunità così rigidamente strutturata? Dove le possibilità di trasformazione ed evoluzione, possibilità tipiche dei luoghi dove circoli la libertà? Secondo Vitale, l’immagine dell’alveare presuppone una ‘sterilizzazione del conflitto’ agita e attuata “dall’aristocrazia interna alla comunità” (p. 39).

Sintetizzando gli esempi portati, sembrerebbe che i difensori dei ‘beni comuni’ se da un lato sembrano sostenere utopie di carattere mistico-religioso, dall’altro non facciano altro, guardando in fondo ai loro proclami, che difendere delle forme di potere totalizzanti, che anziché scalfire le logiche del mercato, le appoggiano fornendo loro delle strutture di potere che le rendono maggiormente efficienti. Che costoro ambiscano più a detenere il potere che a cambiare le cose?

D’altronde, come ben sottolinea, Luisa Muraro in Autorità, “i ribelli per partito preso non sono le persone più temibili per i detentori del potere” giacché , “inconsapevolmente aspirano ad essere comandati da un potere assoluto” (p. 41).

I beni fondamentali

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La parte propositiva del testo di Vitale fa riferimento alle posizioni di Rodotà, Gallino e soprattutto Ferrajoli. Anche Rodotà, ci spiega l’autore, fa riferimento al concetto di beni comuni, ma la sua posizione è radicalmente altra rispetto a quella delineata da Negri & Co. ‘Beni comuni’ sono quei beni che si definiscono “in rapporto ai diritti fondamentali della persona, come garanzia concreta di questi ultimi al di fuori della logica mercantile e proprietaria” (p. 68). Ciò permette non solo di definire chiaramente quali siano i beni comuni, ma anche di ordinarli logicamente. L’ approccio di Rodotà è così diverso che è legittimo chiedersi come mai faccia appello alla stessa espressione, tanto più che la sua critica rispetto alle teorie dei ‘benecomunisti’ non lascia dubbi su quella che è la sua posizione. “Se si fa astrazione dai soggetti e dai bisogni ai quali i beni comuni sono collegati“, sottolinea Rodotà, “si imbocca una strada pericolosamente vicina a quella che ha portato alla costruzione della natura come ‘soggetto morale’, con i conseguenti interrogativi intorno a chi sia legittimato a parlare in suo nome e alle tentazioni autoritarie di chi ritiene la sua tutela sottratta a qualsiasi procedura democratica” (S. RODOTA’, Postfazione a M. R. Marella (a c. di) Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, p. 330).

Ancorare i beni comuni ai diritti fondamentali, così come fanno Rodotà e anche Ferrajoli, permette di evidenziare un aspetto molto rilevante. I beni comuni non rappresentano un superamento della dicotomia pubblico/privato, a differenza di come vengono immaginati dai benecomunisti. L’appello al concetto di ‘comune’ rimanda qui piuttosto alla “strategia mediante la quale il ‘pubblico’-sottoforma di costituzionalismo dei diritti fondamentali preso sul serio-cerca di mettere briglie più efficaci alla privatizzazione del mondo” (p. 69). Nessuna nostalgia del premoderno quindi, ma presa sul serio dei nodi cruciali e fondanti della nostra democrazia, democrazia che rende urgente la costruzione di un costituzionalismo che sia in grado di limitare i poteri economici e le potestà private.

Ma non solo:

E’ senz’altro necessario costituzionalizzare di più e meglio il potere economico e ideologico, cercando di porre argine alla con-fusione dei poteri sociali e mettendo nuovamente mano alla dimenticata arte liberale (non liberista) della separazione dei poteri. Ma non è sufficiente (…) occorre anche immaginare e praticare altre forme di convivenza civile e riproduzione sociale, occupando in forme diverse parte dello spazio su cui il mercato ha progressivamente imposto il suo dominio e le sue regoleSolo indebolendo fattualmente il mercato, sottraendogli spazio e potere nei processi economico-sociali, sarà possibile costituzionalizzarli, ossia porgli anche efficaci limiti giuridici. ” (p.104)


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