Gi uomini che hanno abitato la terra negli ultimi cent’anni hanno una straordinaria confidenza con la folla. Cosa ne dovevano sapere della folla i contadini che vivevano nelle terre desolate e senza confini dei secoli scorsi? E quelli che popolavano le città e per i quali le sole moltitudini conosciute erano le schiere degli eserciti invasori, o le mute processioni religiose? Al di fuori dei miti che la fondano, la folla è un concetto strettamente legato al ventesimo secolo, dal totalitarismo alla globalizzazione. Non si può sapere cosa pensa la folla, così come nessuno può sapere cosa pensa un cane, eppure siamo abituati a sentir parlare di concetti inverosimili come “i gusti del grande pubblico”. Idee come queste sono in realtà edificate sulla statistica, e la statistica è il vero autocrate di questo tempo. È sulla statistica che si definisce il potere economico e politico, è la statistica che orienta l’industria culturale. Così la folla è la nuova sovrana del mondo, e tutti noi, per ambire a un riconoscimento sociale, dobbiamo per forza piacere alla folla. Non basta che il mio nome sia ricordato da un solo essere umano sulla faccia della terra, non basta che la mia parola abbracci quest’essere in tutta la sua pienezza, anche se fosse un re non sarebbe mai abbastanza. È la folla che dobbiamo raggiungere e toccare. Quando ho incominciato a far leggere le mie prime cose, spesso mi sentivo dire che non andavano bene perché non assecondavano il gusto popolare, mi suggerivano di correggere il tiro, di essere più generoso, più sganciato. Per un certo periodo ho anche provato a blandire la folla, alla fine mi sono detto: “Non sei un politico, non sei un ruffiano. Scrivi come sai e come sei”. A dire il vero, da allora non è cambiato molto. Credo ancora a concetti semplici, per esempio che la folla non è creativa. Walt Whitman diceva: “Mi contraddico? Certo che mi contraddico! Sono vasto, contengo moltitudini”. Ecco, quella a cui alludeva Whitman è forse l’unica moltitudine a cui si dovrebbe dar retta.
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