Qualche giorno fa (qualcuno forse se ne ricorderà) avevo scritto alcune righe di lodi a Scalfari, che poteva concedersi il lusso di scrivere un'articolessa molto critica su Renzi e il renzismo, su un giornale che era stranamente molto morbido su un tipo di personaggio che in altri tempi Repubblica avrebbe massacrato. Ovviamente mi chiedevo perchè. Ora, lentamente, le ragioni della morbidezza di Repubblica cominciano ad emergere. E si chiamano, forse, "crisi della Sorgenia". A pensar male, si fa peccato, ma spesso si indovina...
I nudi fatti - Sa qualche tempo, si parla in termini sempre più allarmanti della crisi finanziaria e della situazione debitoria della Sorgenia, società elettrica del gruppo De Benedetti. Debiti che hanno raggiunto 1,9 miliardi di euro, consumi in calo, e Sorgenia sbilanciata su centrali vecchie, spesso a carbone, con una bomba ad orologeria come quella della centrale di Vado Ligure (avete presenti quelle due enormi ciminiere a strisce bianche e rosse, tanto care a noi marinai della domenica, perchè erano due fantastici "punti cospicui" sui quali calcolare il punto-nave quando i satellitari cartografici costavano una fortuna?).
Sorgenia per essere salvata ha urgente bisogno di almeno 600 milioni di euro a brevissimo termine, per coprire le più urgenti richieste di rientro da parte delle banche ersposte con la CIR di De Benedetti, padrone di Repubblica. Praticamente tutto il risarcimento che a De Benedetti proviene dalla vittoria della causa con Berlusconi sul Lodo Mondadori... Può darsi che a breve la Sorgenia possa salvarsi solo con aiuti - propri o impropri - da parte dello Stato. Quindi con Renzi non si può sparare troppo ad alzo zero.
Il Corrierone, praticamente unico concorrente del gruppo Repubblica-Espresso, sente l'odore del sangue, e domenica pubblica, a firma Fabrizio Massaro e Sergio Rizzo sull'affaire Sorgenia, di cui riportiamo in calce i passi salienti.
Debiti per 1,9 miliardi: l'aiuto dello Stato è una possibilità già diventata un caso politico - Il premier, Sorgenia e il salvataggio pagato dallo Stato - Il nodo della remunerazione pubblica per le centrali del gruppo De Benedetti (di Fabrizio Massaro e Sergio Rizzo - Corriere.it)
Si chiama in gergo tecnico capacity payment, ed è un salvagente formidabile per quanti oggi producono ancora energia elettrica con il gas: a causa del boom delle energie rinnovabili e della crisi economica che ha affossato i consumi di energia le loro centrali restano spente la maggior parte del tempo. E i bilanci vanno a picco. Ecco allora spuntare quella miracolosa formula inglese, che si può tradurre così: i proprietari degli impianti termoelettrici vengono pagati lo stesso anche se le turbine non girano, semplicemente perché potrebbero produrre. Una specie di imposta sulla riserva di capacità produttiva che entrerebbe in azione quando ce ne fosse la necessità, in grado di dare un bel sollievo ai conti malandati di alcuni produttori. Quella tassa esiste già, ma i produttori vogliono molto più dei 150 milioni del vecchio capacity payment. Secondo Assoelettrica ed Energia Concorrente, per tenerli a galla servono almeno 600 milioni l'anno fino al 2017. L'hanno scritto in un dossier di una decina di pagine spedito nelle stanze che contano con la dicitura "Riservato".
Chi sta peggio di tutti è Sorgenia, gruppo che fa capo alla Cir di Carlo De Benedetti, editore di Repubblica e del gruppo L'Espresso. Si trova a un passo dall'avvitamento finanziario: fra tre settimane finirà i soldi in cassa. Il debito sfiora quota 1,9 miliardi. A metà degli anni duemila le banche le avevano concesso generosi finanziamenti per realizzare centrali a turbogas. Ma allora il mercato tirava. Poi, in soli cinque anni, è cambiato tutto. Alla crisi economica e al boom delle rinnovabili si è aggiunto l'alto costo dei contratti di acquisto del gas a lungo termine, i cosiddetti take or pay . Risultato: con una produzione ridotta al 20 per cento e un debito diventato insostenibile per almeno 600 milioni, nel solo terzo trimestre 2013 Sorgenia ha messo a bilancio una perdita di 434 milioni: cento in più di quanti De Benedetti ne abbia incassati da Silvio Berlusconi dopo la sentenza sul caso Mondadori.
E qui si apre uno scenario incandescente. Con tre protagonisti: il premier, l'editore di Repubblica e il suo avversario di sempre, Berlusconi [...] Rispettando il gioco delle parti, da settimane i giornali e i commentatori della destra non danno tregua a De Benedetti, individuato come il manovratore occulto del governo di Matteo Renzi. E non soltanto da loro, se è vero che "il Secolo XIX", certo non un quotidiano berlusconiano, raccontando come ai colloqui per il governo avesse partecipato nella delegazione socialista Vito Gamberale, amministratore del fondo F2i; "in trattativa con il gruppo "L'Espresso" per il nuovo operatore delle frequenze digitali", commenta: "Una presenza che non contribuisce ad allontanare l'ombra di De Benedetti dal tentativo di Renzi".
Tutto parte dall'ormai famosa telefonata di Fabrizio Barca con l'imitatore di Nichi Vendola mandata in onda dalla "Zanzara", in cui l'ex ministro parlava delle pressioni subite "dal padrone di Repubblica, con un forcing diretto di sms, attraverso un suo giornalista" per accettare l'incarico di responsabile dell'Economia. Ma poi la cosa dilaga. Il tam tam è inarrestabile. Intervistato dal giornale online ilsussidiario.net, l'economista Francesco Forte, editorialista del "Foglio" di Giuliano Ferrara, si chiede: "Non è un caso che la nomina di Renzi sia arrivata, con un'accelerata, nel momento delle nomine? Lui, forse, quest'accelerata, non la desiderava neanche ma ora sarà tenuto a renderne il servizio..." E dopo che "Repubblica", a poche ore di distanza dalla formazione del governo, ha puntato il dito contro il conflitto d'interessi del ministro dello Sviluppo, l'ex presidente dei giovani di Confindustria Federica Guidi, stigmatizzandone anche le presunte simpatie berlusconiane, il "Giornale" della famiglia Berlusconi titola: "Repubblica attacca la Guidi per i debiti di De Benedetti". Sottolineando proprio la difficile situazione di Sorgenia.
Il fatto è che questa vicenda è destinata a incrociare tanto la strada del governo Renzi quanto quella delle prossime nomine pubbliche nelle aziende di Stato. E magari anche quella del Cavaliere. Ma qui è necessario fare un passo indietro, tornando alle ultime settimane del governo di Enrico Letta. Le pressioni della Confindustria perché si risolva quel problemino dei produttori termoelettrici sono incessanti. Finché nella legge di Stabilità spunta una norma che apre la strada proprio a quella formuletta inglese: "capacity payment".
Fissando però soltanto il principio: a stabilire quanti soldi e a chi concretamente andranno, toccherà al Ministero dello Sviluppo, sentita l'Authority, entro la fine di marzo 2014. Al ministero c'è il bersaniano Flavio Zanonato, attorniato da altri bersaniani. Il segretario generale è Antonio Lirosi e il capo di gabinetto Goffredo Zaccardi, che aveva lo stesso incarico con Pier Luigi Bersani: il quale non può certo essere considerato nemico di De Benedetti. Anzi. Sorgenia esiste proprio grazie alle liberalizzazioni introdotte
dall'ex ministro dell'Industria Bersani. E ora il salvataggio è nelle mani di Renzi e Guidi.
Il nemico rischia di essere il tempo. Le banche hanno chiuso i rubinetti, il socio austriaco Verbund non vuole più tirare fuori un euro e Rodolfo De Benedetti, il figlio di Carlo, è disposto a mettere nel buco nero soltanto un centinaio di milioni. Il rischio di dover portare i libri in tribunale è reale. E l'eventuale fallimento non risparmierebbe le banche, la cui esposizione è vertiginosa. Tanto che queste stanno valutando la possibilità di trasformare parte dei loro crediti in capitale, ripetendo il copione già sperimentato con l'immobiliare Risanamento di Luigi Zunino e con la Tassara di Romain Zaleski. Se ne parlerà domani a un vertice forse decisivo. Ben sapendo due cose.
: senza l'aiutino dello Stato Sorgenia rischia comunque di andare a picco, come riconosce lo stesso piano finanziario della società.
: la soluzione definitiva è la cessione del gruppo energetico che fa capo a De Benedetti.
E di candidati italiani con le spalle abbastanza grandi non ce n'è che uno. L'Eni di Paolo Scaroni: un manager che nel 2002 è stato designato alla guida dell'Enel e che poi è stato nominato per ben tre volte ai vertici del grande gruppo petrolifero ancora controllato dal Tesoro. Cementando anche attraverso l'assidua presenza dell'Eni in Russia i rapporti tra l'ex premier Silvio Berlusconi e Vladimir Putin. Corre voce che nei colloqui con Matteo Renzi il Cavaliere abbia chiesto (e ottenuto?) un impegno a preservare, con le nomine che il governo dovrà fare nelle prossime settimane, le posizioni di Scaroni e dell'attuale capo dell'Enel Fulvio Conti all'interno del sistema delle grandi aziende pubbliche (...su questo punto, avremo una verifica a brevr scadenza... i tempi stringono. NdR)
Da una parte il capacity payment rinforzato. Dall'altra l'intervento successivo dell'Eni. Gli ingredienti per uno dei classici feuilleton all'italiana, nei quali la politica e gli affari si amalgamano in un abbraccio incestuoso, ci sono tutti. Con effetti pirotecnici a cascata. Perché se trasformando i crediti in azioni le banche diventeranno proprietarie di Sorgenia, magari lo Stato, attraverso l'Eni, darà un aiutino determinante anche a loro. Il secondo, dopo quello della rivalutazione delle quote di Bankitalia che ha fatto imbestialire i grillini. La prima della lista, la più esposta di tutte? Il Monte dei Paschi di Siena, nelle mani di una fondazione già a trazione Pd...
Dunque, tutto chiaro "as fresh water"? Non proprio. Perchè nell'articolo del Corrierone, ci sono molte verità, ma anche molte "dimenticanze" sospette. Prendiamo un articolo di Carlo Stagnaro, ingegnere-ambientalista, che smentisce parzialmente l'obiettività e l'autorevolezza dell'articolo di Massaro e Rizzo. L'articolo di Stagnaro, tratto da "linkiesta.it", è particolarmente affidabile anche perchè Stagnaro scrive su molti giornali, fra i quali molti "vicini al berlusconismo (Il Giornale, Libero, Il Foglio, Il Tempo), e quindi dobbiamo dedurre che non è propriamente un amico di Carlo De Benedetti. Ma riesce ugualmente ad individuare alcune "attenuanti tecniche" in favore di De Benedetti. Leggiamo alcuni passi:
Sorgenia e gli aiuti di Stato al mercato elettrico - Non solo l'azienda Cir: ecco come in Italia il libero mercato dell'energia esiste solo a parole (Fonte: Carlo Stagnaro - linkiesta.it)
Il mercato elettrico si trova oggi in mezzo al guado: liberalizzato ma non troppo, ancora nell'orbita dello Stato ma non del tutto. In questo post si cerca di fare un po' d'ordine, partendo da Sorgenia, E.On, capacity payment e l'immancabile Cdp. Un lungo articolo di Fabrizio Massaro e Sergio Rizzo, pubblicato a tutta pagina sul Corriere della Sera di domenica, mette sotto i riflettori la crisi di Sorgenia, società a cui restano sì e no tre settimane di liquidità e per la quale si sta cercando insistentemente una qualche "soluzione di sistema". Massaro e Rizzo descrivono abbastanza fedelmente la situazione, ma ci montano troppa panna politica attorno, e in tal mondo sviano l'attenzione sia dalle ragioni vere delle difficoltà di Sorgenia, sia dal più generale cambiamento di fase che sta travolgendo l'intero settore elettrico. Fare un minestrone tra Carlo De Benedetti, Silvio Berlusconi, Vito Gamberale (!) e Matteo Renzi, presentare il discusso meccanismo di capacity payment come un aiuto di Stato a Sorgenia, ricamare sulla telefonata rubata a Fabrizio Barca, non aiuta a fare chiarezza e, anzi, dà a tutto un'allure fumettistica che non giova a nessuno.
Massaro e Rizzo, in particolare, si sono persi due elementi, ed è un peccato perché questo rende monca la loro ricostruzione dei fatti, di per sé corretta.
Il primo è la storia del disimpegno di un altro importante operatore, la tedesca E.On, che da tempo ha annunciato di voler abbandonare il nostro paese: Sorgenia, insomma, ma non solo Sorgenia. Non appena la notizia - nell'aria da un po' - ha assunto dimensione pubblica, sono immediatamente fioccate le manifestazioni di potenziale interesse e le smentite. Pian piano però si è fatta strada l'ipotesi di un coinvolgimento della Cassa Depositi e Prestiti. La Cdp funziona così: prima "gira la voce", poi la voce si fa insistente, quindi viene smentita, infine l'operazione si realizza in un amen (citofonare Ansaldo energia).
Il secondo elemento che è sfuggito all'attenzione di Massaro e Rizzo è la causa dell'impasse di Sorgenia. Certo, l'azienda ha perseguito una politica di espansione aggressiva di cui oggi paga il conto: ha attivato impianti quando la condizione di over capacity del sistema elettrico italiano era ormai un fatto (anche se, quando l'iter per la loro realizzazione era stato avviato, lo scenario era ben diverso), ed è in tal modo rimasta travolta dalla crisi dei consumi. Tuttavia, Sorgenia non paga dazio solo alla recessione, che pure è un elemento cruciale nella vicenda. I consumi elettrici nel 2013 sono crollati ai livelli del 2003, proprio in chiusura di un ciclo di investimenti, iniziato nei primi anni 2000, che ha portato a un completo rinnovo del parco di generazione. L'andamento macroeconomico è un fattore largamente esogeno al mercato elettrico, e come tale non controllabile. Eppure, è fondamentale, per capire Sorgenia, rendersi conto che nel 2012 il parco elettrico italiano poteva contare su una potenza efficiente lorda media pari a 124 GW, contro una domanda di picco (10 luglio 2012 alle ore 12) di 54 GW. La capacità produttiva era più che doppia rispetto al massimo carico domandato dalla rete.
La crisi economica, dunque, ha indebolito Sorgenia (ed E.On e tutti gli altri: nessuno sta troppo bene, oggi, nell'industria elettrica). Ma la vera malattia del settore elettrico, e in particolare dei generatori convenzionali, ha un altro nome: si chiama "politica industriale", o "politica energetica", o qualunque altra espressione a vostra scelta purché contenga la parola "politica". Il boom delle fonti rinnovabili, sulla scia di sussidi generosissimi, ha fatto crescere la capacità di generazione "verde" da 24 GW nel 2008 (di cui quasi 18 GW vecchio idroelettrico) a 47 GW nel 2012. Le fonti rinnovabili godono di "priorità di dispacciamento", vale a dire che l'energia elettrica da esse generata può "scalzare", sulla rete, quella di origine termoelettrica. Per di più sono remunerate, per mezzo degli "incentivi", a condizioni che ne rendono certa la competitività. Domanda virtualmente illimitata più prezzi ben al di sopra dei costi di produzione non potevano che produrre una tendenza dell'offerta a dilatarsi indefinitamente, almeno fino al giro di vite sugli incentivi avvenuto nel 2012.
Risultato? Da un lato, le rinnovabili hanno ridotto le dimensioni del mercato contendibile, in questo amplificando gli effetti della recessione: se nel 2008 i produttori convenzionali hanno potuto competere per servire circa 295 TWh (cioè la differenza tra una domanda lorda totale di 353 TWh e un 16% di produzione rinnovabile sussidiata), nel 2012 la loro "fetta" di mercato si era ridotta del 16%, ad appena 248 TWh (a fronte di una domanda lorda totale di 340 TWh e una produzione rinnovabile sussidiata di circa 92 TWh). In realtà l'area contendibile del mercato, se si considerano impianti essenziali, altre unità sussidiate come le centrali Cip6, i vincoli di rete, ecc., è ancora inferiore.
Dall'altro lato, l'esplosione delle rinnovabili non solo ha abbattuto i volumi: ha pure intaccato i margini. In virtù delle modalità di funzionamento della borsa elettrica, le fonti rinnovabili producono l'effetto di "tagliare" i prezzi di mercato dell'elettricità (in quanto si remunerano attraverso sussidi, e derivano solo una piccola parte dei propri ricavi dal valore dell'energia prodotta). Si tratta del cosiddetto peak shaving. Dal punto di vista dei produttori convenzionali, questo significa che la loro quota di mercato viene erosa proprio nelle ore più remunerative. Il conseguente aumento dei prezzi sulla borsa elettrica nelle ore serali, quando la produzione fotovoltaica crolla rapidamente e gli impianti termoelettrici devono salire con una rampa di produzione molto ripida, non basta a controbilanciarne l'effetto.
"E' il mercato, bellezza", in questo caso, è una spiegazione insoddisfacente. Perché non è certo imputabile al mercato lo sviluppo prepotente di un parco rinnovabile sovradimensionato ed extraremunerato. Un parco, per giunta, che produce seri problemi di gestione del sistema a causa della sua intermittenza, e che presuppone l'esistenza di capacità convenzionale in grado di fornire backup in qualunque momento sia necessario, ma con difficoltà sempre maggiori (salvo un'inattesa ripresa della domanda) a coprire i suoi costi fissi.
Il dibattito sul capacity payment va inserito in questo contesto. Con due ulteriori precisazioni. Primo: data l'attuale overcapacity non vi è, oggi e nel futuro prevedibile, particolare necessità di uno schema di remunerazione della capacità non utilizzata a fini di sicurezza del sistema. Secondo, e conseguenza: quello che noi chiamiamo capacity payment è, di fatto, per il modo in cui è congegnato e soprattutto per le sue modalità di finanziamento (a carico dei consumatori) la creazione dell'ennesima voce di stranded cost in bolletta. (Curiosamente, Massari, Rizzo e tanti altri non sembrano essersi accorti di una misura molto più scandalosa e molto più ad personam, perché va a sanare non costi fatti emergere da decisioni politiche, ma da errori nelle strategie di approvvigionamento delle singole aziende: il cosiddetto capacity payment gas).
In questo senso, è vero che si tratta di un parente stretto di un aiuto di Stato, ma è falso - rispetto al ragionamento di Massari-Rizzo - che sia pensato ad hoc per Sorgenia. Si tratta di un aiuto (o, meglio, un risarcimento) a un intero comparto industriale azzoppato da precise, colpevoli e conscie scelte politiche. Scelte politiche che furono esplicitamente finalizzate a regalare una rendita ai produttori rinnovabili e a colpire l'industria elettrica convenzionale. In tutto questo, chi ha recitato una doppia parte in commedia sono le banche: che per un verso sono state protagoniste del lobbying pro-sussidi verdi (essendosi accapparrate una buona fetta degli extraprofitti), per l'altro si trovano oggi nella scomoda posizione di creditori dell'industria tradizionale. Le parole di Giuseppe Mussari, che nel gennaio 2011 da capo dell'Abi parlò di una "bolla speculativa pronta a esplodere" nelle rinnovabili dove le banche "avevano fatto troppo", sono molto sinistre se lette in retrospettiva.
La riflessione sul capacity payment è (o dovrebbe essere) soprattuto una riflessione sui disastri dell'intervento pubblico e della "politica industriale". L'unica via d'uscita è imputare correttamente i costi di sistema: facendo in modo che siano le stesse fonti rinnovabili a coprire i costi di sbilanciamento causati dalla loro intermittenza, come peraltro chiede l'Autorità per l'energia. Questo intervento resta molto parziale, perché andrebbe a "tappare" i costi diretti ma non quelli indiretti derivanti dallo spiazzamento dei
produttori convenzionali causato dai sussidi pubblici. Ma, quanto meno, sarebbe una soluzione tecnicamente ragionevole, che darebbe (indirettamente) sollievo anche ai produttori convenzionali.
Ma, tornando al quadro più generale, è importante non leggere le vicende di Sorgenia, E.On e altre che potrebbero aprirsi come storie individuali. Queste parabole sono diverse, ma sono uguali. Sono uguali perché, seppure in modo differente, rendono evidente una criticità pesantissima nel nostro mercato, ossia l'eccesso di capacità produttiva che si è venuto a determinare. "Voi italiani - mi ha detto tempo fa un amico straniero, sintetizzando molto bene la questione - avete il parco di generazione più nuovo, più efficiente, più pulito, e più inutilizzato d'Europa".
In sostanza, a fronte di un problema di natura in parte macroeconomica, ma soprattutto politica, si è venuta a creare una perversa coalizione di attori che chiedono il ritorno prepotente dell'interventismo pubblico. Ritorno, peraltro, che è già nei fatti dal punto di vista normativo, con le ultime invasioni di campo governative (contenute anche nel decreto Destinazione Italia) ai danni dell'Autorità per l'energia e del mercato. Ritorno, inoltre, che è un dato di fatto pesantissimo negli assetti proprietari: non solo i maggiori operatori di rete sono a trazione pubblica (Terna è controllata dalla Cdp, Enel Distribuzione fa capo a Enel che è controllata dal Tesoro, altre reti locali sono delle ex municipalizzate), ma anche nella parte liberalizzata del mercato il pubblico pesa. Nella generazione, la quota congiunta degli operatori pubblici sta attorno ai due terzi, nei mercati retail ancora sopra. La stessa Strategia energetica nazionale, per quel che vale, lascia poco spazio alla competitione e ritaglia un ruolo sempre più ampio alla pianificazione. Di privatizzare questi operatori, nessuno ne parla neppure nell'ambito della più ampia discussione sulle privatizzazioni che è in corso ormai da tre anni.In questo contesto, ulteriori passi avanti direttamente della Cdp o indirettamente attraverso Fsi o F2i segnerebbero il deciso, e forse decisivo, superamento di una barriera alla presenza pubblica. Un conto, infatti, era il continuo rimpallo di asset tra operatori comunque pubblici (Tesoro, Cdp, ex municipalizzate, ecc.). Altra cosa è il subentro di questi ultimi a operatori privati, quali E.On e Sorgenia.
Sebbene il sistema si trovi oggi in una fase critica e bisognosa di un serio aggiustamento, la soluzione non può venire dalla progressiva rinazionalizzazione. Purtroppo, assillati dai gravi problemi di breve termine, molti operatori stanno mettendo volontariamente la testa sotto la ghigliottina: più spingono per formule di remunerazione tariffaria e contro i rischi di un mercato libero, più si rendono inutili, marginalizzando il senso della competizione come strumento di "scoperta del prezzo".
In un mercato che premia chi conquista clienti, la concorrenza è tutto. In un mercato che premia chi si posiziona meglio rispetto alle partite normative e regolatorie, alla fine qualcuno si chiederà perché mai un gioco del tutto interno al recinto delle decisioni pubbliche debba lasciare spazio ai privati. Le prossime mosse di Cdp & Co. potrebbero segnare l'abbandono - sostanziale, ancorché non formale - della concorrenza nel mercato elettrico. A riprova che non importa quanto bene intenzionate siano le politiche (i sussidi alle rinnovabili servivano a salvare l'orso polare dall'estinzione, no?): lo Stato è sempre un elefante, il mercato è sempre una cristalleria.