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La morte dell’erba, di John Christopher

Creato il 04 dicembre 2015 da Rivista Fralerighe @RivFralerighe

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Scritto nel 1956, La morte dell’erba è un romanzo post-apocalittico che si riallaccia al filone della cosiddetta “apocalisse floreale”, sottogenere della sci-fi inaugurato da Ward Moore nel 1947 con Più verde del previsto e proseguito da John Wyndham nel 1951 con il Il giorno dei trifidi.

Lontani dalle apocalissi nucleari che, in piena guerra fredda, andavano per la maggiore, Christopher e Wyndham affidano la fine del mondo non più all’uomo ma alla natura.
Se nel romanzo di Wyndham sono i trifidi, misteriose piante forse frutto di ingegneria genetica, a decimare il genere umano, nel romanzo di Christopher la morte avviene per colpa di un virus, il Chung-Li, che aggredisce e uccide ogni forma di vita vegetale. In questo contesto, l’uomo non è più né il bersaglio privilegiato dell’apocalisse, né uno dei fautori della fine, ma uno dei tanti animali che pare condannato alla morte per fame.

Se questo è il tema portante del romanzo, però, Christopher va oltre, interessato a indagare i possibili mutamenti che una situazione di grave crisi – alimentare in questo caso – può scatenare in una società organizzata, moderna e “civile”.

“Ann restò in silenzio. Poi disse: -Prima che tutto questo sia finito…arriveremo a odiarci? O finiremo con l’abituarci alla situazione, tanto da non renderci conto che stiamo cambiando?”

La morte dell’erba, John Christopher, p. 68.
Beat edizioni, trad. Mario Galli, 2014.

Così, se in Il giorno dei trifidi il protagonista del romanzo non ha mai un cedimento e mantiene inalterato il tipico aplomb inglese, al contrario in La morte dell’erba assistiamo a un totale stravolgimento delle personalità dei protagonisti che la violenza e la necessità di sopravvivere plasmano nel giro di pochi giorni: il riflessivo John e il cinico Roger mutano tanto a fondo da mostrare, a conclusione del romanzo, un’inversione sostanziale dei ruoli iniziali.
John, che all’inizio si rifiuta di premere un grilletto contro un militare, verso la fine della storia non esiterà ad ammazzare né ad abbandonare una famiglia con bimbi molto piccoli solo perché elementi troppo deboli per essere di qualche aiuto all’interno del gruppo. Al contrario, Roger si troverà a lottare disperatamente per conservare un briciolo di umanità, quella stessa umanità che appena pochi giorni prima si vantava di non possedere.

La carestia, il fattore di crisi, non risparmia nulla: né le relazioni familiari, né le più profonde convinzioni morali; si uccide per difendere il proprio gruppo, le proprie risorse e per stabilire un nuovo tipo di coesione sociale che è molto simile a una socialità ferina, da branco. Abbandonata la democrazia, distrutti i governi, esiliati i ministri, gli uomini si consolidano in gruppi dove il potere deve essere per forza detenuto da un solo uomo, il più forte, il più violento, il più cinico. La pietà è bandita perché il pietismo è un sentimento distruttivo, disgregante: a che pro salvare la vita di un uomo debole? Solo per avere una bocca in più da sfamare dove ce ne sono già troppe?

Ma sotto questo macro racconto, quello dell’apocalisse sociale, della morte dell’erba e dell’uomo, la storia della fuga di John e della sua famiglia da una Londra in piena guerra civile e prossima ad essere bombardata da bombe nucleari per ridurre il numero di morti da inedia, verso il “regno” del fratello minore, c’è una terza storia nascosta, che è poi l’elemento che, pur non palesandosi mai, è la vera base del romanzo di Christopher: la gelosia tra fratelli. Un elemento che viene introdotto senza darne peso nel prologo, si sviluppa nel corso del romanzo e che si fa chiaro al termine della lettura. È la storia di Caino e Abele che si ripete, immutata e costante. Da sempre l’uomo lotta contro i propri simili per gelosia, invidia, rancore. Un senso di ingiustizia artefatto, di infelicità ingiustificata che ci porta a paragonare costantemente gli altri con noi. E anche se gli altri hanno meno di ciò che abbiamo, consideriamo quel meno un qualcosa di troppo che vorremmo avere, che consideriamo “nostro di diritto”.
La carestia e la crisi assumono così il ruolo di un mero pretesto, un modo come un altro per giustificare il grilletto premuto. Così l’incipit: “Come a volte succede, la morte sanò un dissidio di famiglia” è anche epilogo ed epitaffio, la chiusura perfetta di un romanzo che si legge pagina dopo pagina, che non scatena grandi picchi emozionali ma che instilla nel lettore un’angoscia crescente e un costante sentimento di ingiustizia e desolazione. La morte dell’erba è un page turner che si legge in un soffio e che andrebbe letto per riflettere su ciò che siamo, soprattutto in un momento storico tanto particolare come quello che stiamo vivendo in questo momento.

sam youd-john christopherSull’autore:
John Christopher è Uno dei tanti pseudonimi dello scrittore di fantascienza Christpher Samuel Youd. Nato nel 1922 a Huyton, Lancashire, e morto a Bath nel febbraio del 2012, Youd è noto soprattutto per le opere di narrativa per ragazzi, tra queste le trilogie I tripodi e Sword of the Spirits. Da La morte dell’erba, nel 1970, è stato tratto un film diretto da Cornel Wide, No Blade of Grass.

Federica Leonardi



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