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Il meccanismo è sempre lo stesso. Al tempo di Twitter, l’informazione viaggia alla velocità di un cinguettio. Quello che serve per dare fiato ad una bufala e farla correre il più veloce possibile. Tweet. Retweet. E il gioco è fatto. Cambio di consonante e una notizia, invece di essere propagata, viene propalata. È toccato a Fidel Castro. Per la seconda volta in sei mesi. Evidentemente, al popolo di Twitter il “Lìder Maxìmo” sta poco simpatico. Tanto che, svelata la fandonia, i giornali di lingua spagnola hanno prontamente titolato: “Twitter mata a Fidel” (“Twitter uccide Fidel”). Tutto è iniziato con un messaggio apparso a notte fonda: “Attenzione, Cuba Press ha verificato la morte di Fidel Castro. Stasera la comunicazione ufficiale dal governo del Paese”. Ripresa e rilanciata dagli utenti del social network, in breve tempo la notizia è balzata in testa ai TT (trending topics, gli argomenti più discussi): commenti degli utenti, richieste di conferme, dubbi dei giornalisti di mezzo mondo, sublimati dall’amara considerazione della popolarissima blogger cubana Yoani Sanchez: “Amici, il giorno che questo rumor sarà verità, noi cubani saremo gli ultimi a saperlo”.
Dal 2006, da quando Castro è scomparso dalla scena pubblica, escluse le brevi apparizioni ad uso propagandistico per smentire le voci sulla gravità delle sue condizioni di salute, l’attesa per l’epilogo della vicenda umana si intreccia con l’incertezza per cosa ne sarà di Cuba. I regimi hanno sempre la faccia del dittatore che li guida. Volitiva nella fase di massimo splendore, incartapecorita quando la parabola scende inesorabilmente. Caso scolastico, la gerontocrazia del Pcus nella fase terminale dell’esperienza storica sovietica, mummificata come il corpo di Lenin nel mausoleo sulla Piazza Rossa e rappresentata plasticamente dai volti dell’ultimo Breznev, di Andropov e Cernenko, superstiti travolti dalla perestrojka gorbacioviana. Nonostante il passaggio del testimone al fratello Raul (un ottantenne, non un giovanotto di primo pelo), è altamente probabile uno scenario già visto altrove. Una caduta rovinosa che trascinerà giù tutto, persone e impianto dello Stato. E se i sostenitori di Fidel temono che l’isola caraibica possa diventare nuovamente il “bordello” degli Stati Uniti, è pur vero che la fine di un’epoca può innescare processi imprevedibili e incontrollabili.
Per i regimi, la rete è un nemico in più. I new media stanno mettendo a dura prova pratiche sedimentate, rivoluzionando il sistema di reperimento e diffusione delle notizie. Alcuni accorgimenti sono però ineludibili. Pur di primeggiare, c’è chi non si fa scrupoli se deve saltare il fondamentale passaggio della verifica. Ed è un gioco da ragazzi mettere in circolo una panzana, per vedere l’effetto che fa, per gioco o tendenziosamente. Si riapre così, periodicamente, il dibattito sull’informazione al tempo dei social network, alimentato dalle considerazioni che la divulgazione di una falsa notizia inevitabilmente suggerisce. Come nel caso della “morte” di Castro, preceduta – nei giorni scorsi – dalla bufala sul ricovero in ospedale di Nelson Mandela e dal “decesso” di Paolo Villaggio. Social media e citizen journalism sono realtà imprescindibili per chi fa informazione. Non possono però godere di alcuna franchigia deontologica. Chi non verifica una notizia prima di lanciarla (o rilanciarla), che lo faccia sulla carta stampata o che lo faccia sul web, nella migliore delle ipotesi è un incompetente, nella peggiore un farabutto.
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